L'altra sera, la
principale attrattiva di Lucio Silla era
rappresentata dal debutto scaligero di Marc Minkowski, protagonista
della scena barocca degli ultimi anni.
Ha proposto una lettura
mozartiana 'muscolare' che procede più per sovrapposizione di
blocchi strumentali - rari gli assottigliamenti e, viceversa,
determinanti i rinforzi di suono - piuttosto che per un autentico
dialogo ed amalgama tra le sezioni dell'orchestra, nutrita da oltre
cinquanta elementi. Conquistando nitidezza nei profili melodici, ma
anche scorrevolezza e luminosità generali, Minkowski ha stretto il
divenire della narrazione in una pulsione ritmica continua, assai più
nervosa che lirica. Con lui il recitativo secco diventa accompagnato
per transitare poi all'aria senza interruzione della continuità: una
tenuta narrativa incalzante e che rappresenta l'elemento
caratteristico di questo Silla (in due parti invece che in tre
atti, la prima terminando dopo la grande aria di Giunia: Ah, se il
crudel periglio). Forte delle proprie interpretazioni del Gluck
riformato, nelle quali il direttore è impegnato a rilevare al
massimo grado la compattezza e la tenuta teatrale delle partiture,
Minkowski ha ritenuto di poterle esaltare anche in questo
titolo mozartiano, nel quale è indubbio che la scrittura
orchestrale sia sensibilmente più adatta all'atmosfera drammatica
rispetto a quella del Mitridate (a
cominciare dai cori e dai recitativi accompagnati): del resto, in
assenza dell'ingrediente principale (i cantanti), non si possono
certo far delibare al pubblico le delizie della scuola napoletana, i
cui influssi furono qui per Mozart ben più determinanti rispetto a
quelli coltivati negli anni '60 tra Vienna e Parigi. Là, nel
Gluck di Minkowski - penso al suo Orphée et Eurydice (discesa
di Orphée agli Inferi), Iphigénie en Tauride (Thoas e
chœur des Scythes) e Armide (La Haine) - è tutto un
ribollire di vapori sulfurei, di saettanti incisi dei fiati, di
strappate e cupi fremiti degli archi. Quei colori troviamo qui
evocati nella celebre scena d'ombra e certi rilievi sulla generosa
scrittura orchestrale sono marcati, ad esempio, nell'aria di paragone
di Celia (Quando sugl'arsi campi) con le onomatopee affidate
agli archi. Degna di nota, almeno in orchestra, la scolpitura
accentale dei recitativi accompagnati. Al Mozart di Minkowski non è
difficile preferire quello di Rousset (Mitridate)
e, soprattutto, quello di Antonini in un Ascanio in Alba
a suo tempo temerariamente affidato all'Orchestra dell'Accademia del
Teatro alla Scala.
Non
siamo in presenza di un cast
come quello allineato da Hager (Augér, Varady, Mathis) né tantomeno
delle interpreti che hanno fatto la fortuna dell'opera mozartiana a
partire dagli anni Venti del '900, anche in disco (Cossotto, Cuberli,
Murray, Gruberova). Dimentichiamo subito la rivoluzione del
belcanto, quello che rifugge dalle inflessioni del naturalismo per
conquistare la dimensione aulica, strumentale del mezzo vocale,
nemica del verismo e di ogni riproduzione letterale della realtà.
Abbandoniamo ogni idea dell'omogeneità del suono in virtù (non già
in difetto) della quale si dovrebbe costruire l'espressione dei
sentimenti, sempre e comunque regali anche dove siano provocati da
furia o da follia, come si conviene alle creature del teatro classico;
così come cancelliamo dalle orecchie i frutti di quella tecnica che
sola può costruire il suono puro, astratto e governato senza
apparente sforzo; quello che si deve espandere in sala libero nella
risonanza e in grado di risolvere ogni più ardito, acrobatico passo
dello spartito.
Qui siamo nell'ambito di
quella che oggi s'intende per eloquenza espressiva: a differenza di
quanto avviene nel belcanto, insomma, lo sforzo di eseguire arie
tanto complesse non è affatto dissimulato, anzi dichiarato. E,
proprio in virtù di questa manifestazione, ottiene il plauso di
parte del pubblico. A chi ama il canto antico, insomma, quella degli
interpreti di questo Lucio Silla apparirà soprattutto una
concitazione indisciplinata destinata a stancare col passare dei
minuti perché, fondamentalmente, essa si esaurisce in pochi gesti
musicali rifuggendo da quella rigogliosa varietà che solo
l'impostazione vocale ortodossa può garantire. Pur a scapito della
dizione, tale continua sovreccitazione si rivela più appropriata per
gli allegro di quanto non valga per gli andante e i largo, nei quali
la tenuta della linea del canto appare fatalmente compromessa; penso
soprattutto al bellissimo Pupille amate di Cecilio in cui al
soprano è richiesto un cantare sfumato; quello della Crebassa è,
invece, inconsistente e poco espressivo. Del resto, il
centro della sua voce non è affatto sfogato e, anche se meno
rispetto a quello di Kalna (Cinna), si ha come l'impressione che
l’emissione sia ostruita: salendo, la voce non è affatto piena,
spesso indietro e non appoggiata come si deve. Per Cinna si veda in
particolare l'ultima aria, De' più superbi il core, tenuta
coi denti. Voce essenzialmente monocroma è poi quella Lenneke Ruiten
(Giunia): per le agilità ricorre anche al falsetto e gli acuti
suonano fibrosi e asprigni. In Fra i pensier più funesti di
morte stava male per davvero quella puntatura in guisa di
strilletto e come tale è stata salutata da un 'buu' del loggione.
Soppresso il personaggio
di Aufidio, un'aria di Celia (Se il labbro timido) ed una di
Giunia (Parto, m'affretto) - mantenuto però il recitativo
accompagnato che la precede - è stata affidata a Silla (Spicer)
un'aria del Bach di Milano (Se al generoso ardire) collocata
in posizione non dissimile a quella che impegna Idomeneo nell'ultima
scena dell'opera (Torna la pace al core). E davvero di ardire si tratta dal momento che l'interprete, con
l'intenzione di legare, produce suoni spoggiati e afoni che, non
appena si avvicinano al passaggio, vi battono chiudendosi. Lecito
domandarsi come sia possibile, con un tale imposto vocale, essere
dediti al canto professionale.Alla Scala è ancora vivo il ricordo dello spettacolo con la regia di Chéreau. I cantanti hanno agito su indicazioni di Pynkoski in un contesto scenico classicheggiante che avrebbe funzionato meglio se diversamente illuminato; esso restituisce però un quadro visivamente piacevole nella scena della prigione di Cecilio. Si tratta di una regia refrattaria a sollecitare le potenzialità del testo, ma generosa nella gestualità (certo per assecondare il canto di cui sopra) e mossa, però con opportuna discrezione, dal corpo di ballo. Belli i costumi, di taglio un poco più cinematografico che teatrale, indossati dai cantanti che si esibiscono, opportunamente, quasi solo al proscenio.
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