Equivocare quella di Paolo Isotta con la critica musicale tout court
non è diverso che scambiare la penna di Lina Sotis con i monumenti
musicologici eretti da Carl Dahlhaus. Sia chiaro: pretendere oggi di
scorgere in una sola figura i tratti del critico musicale 'onniscente'
appare impossibile. Bisogna stabilire, prima di tutto, di quale ambito
si intende trattare: musica strumentale oppure operistica? e, anche qui,
non dovrebbero mancare i sottogruppi.
Il divorzio tra musicologia e
giornalismo musicale si è consumato ormai da tempo e le figure capaci
di sommare i due ambiti sono scomparse: mi riferisco a Mila, Celletti,
Confalonieri, D'Amico, Abbiati. Quella era critica musicale e la loro
era, però, al tempo stesso, una musicologia diversa dall'attuale (ma il
contributo di Celletti, direi, sembra persino immune al trascorrere del
tempo). In ambito operistico, soprattutto italiano e francese, si è
verificata una vera e propria frattura; forse è fatale che non venga
sanata. Negli ultimi decenni, infatti, nuovi metodi d'indagine hanno
consegnato chiavi di lettura più suggestive, prospettive più ampie
intorno a questi repertori; più difficile, dunque, conciliare ricerca e
pratica dell'ascolto, soprattutto di quello dal vivo che è il pane di
quotidiani e riviste. Negli ultimi decenni, insomma, si sono esplorati
in maniera differente territori come il barocco (al punto tale che qui
la ricerca è corsa persino più veloce della prassi) e come l'età che da
Rossini giunge agli autori della Giovane Scuola; lo stesso dicasi per il
repertorio francese, russo e ceco, trattati ormai alla stregua dei
classici e romantici tedeschi. Su autori e titoli che costituiscono il
repertorio dei teatri un contributo musicologico di Isotta degno di
memoria semplicemente non esiste. Egli, del resto, da sempre rifiuta
quei metodi d'indagine che, con non celato disprezzo, definisce
'scientifici' in La virtù dell'elefante: lettura piacevole,
simpaticamente inattuale, e che nessuno si dovrebbe spingere a definire
'libro di critica' poiché i giudizi che vi sono espressi sono tutti,
nessuno escluso, apodittici.
Non mancano, invece, - pur
nell'esiguità degli spazi concessi sui quotidiani - recensori di
concerti di musica strumentale, anche contemporanea; più confortanti le
riviste. Taluni sono in grado di assurgere al ruolo di critici; altri,
invece, ignorano del tutto il problema. Nell'opera questo si dimostra, a
mio avviso, macroscopico: si va dalla carta stampata al variegato mondo
del web e, in entrambi i casi, è assai più immediato parlare di
recensioni piuttosto che di critica musicale. Se, per esempio, si
recensisce Una sposa per lo zar non è possibile sacrificare all'altare
del teatro di regia la centralità giocata dal canto e dagli stilemi
romantici che sono addirittura storicizzati da Rimskij-Korsakov nella
scrittura musicale; sarebbe come far critica su Wagner occupandosi
all'80% dei cantanti e relegando all'ultimo piano orchestra e direzione.
Allo stesso modo, nessun critico letterario potrebbe basare la propria
analisi di Proust trattando quasi solo del controcanto delle citazioni
letterarie perdendo di vista i dati della biografia dell'autore. Sarebbe
un errore metodologico e di sostanza tale da inficiare
irrimediabilmente il risultato. Così accade anche nella critica
musicale. Quando essa si rivela ben strutturata, risulta opinabile nella
stessa misura in cui lo sono un saggio letterario ed uno musicologico;
che si intendono, cioè, discutibili solo se giungono argomentazioni
convincenti per mettere in crisi metodi e contenuti adottati.
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