Lo cercavo da tanto tempo ed ecco che un'anima bella l'ha caricato su
YouTube: è il Macbeth di Béla Tarr (1982) che lui girò quando aveva
ventisette anni, con budget ridottissimo.
Sono pochi i soggetti che
più di questo si adattano all'estetica rigorosa e al nichilismo
radicale del regista ungherese; fin dai primi lavori, il suo cinema si
dimostra di grande impatto emotivo, dotato com'è di una forte coscienza
autoriale. Qui però, a differenza che nei lungometraggi più noti,
il passo non è affatto lento ed è anzi capace di stringere la tragedia
shakespeariana in 62 minuti organizzati in solo due piano-sequenza: il
primo della durata di 5'20 e girato in esterni, l'altro - incarnazione
cinematografica dello 'sleep no more' - in un unico interno. Tornano alla mente le osservazioni di Bradley (Shakesperean Tragedy,
1904) il quale sottolinea quanto l'opera generi in noi, instancabile e
vivida, un'impressione continua di rapidità, non di brevità.
Soltanto
negli ultimi secondi - quelli della battaglia - Tarr ci riporta all'aria
aperta. Credo che l'espressione del viso di Macduff mentre porta in corteo la
testa di Macbeth mi torturerà a lungo.
La sceneggiatura è
semplicemente perfetta, a cominciare dalla riduzione delle dramatis
personae; e Tarr ha ritenuto imprescindibile la presenza del portiere
così come la sopravvivenza delle sue battute. E la regia è fatta di
diversi particolari capaci d'illuminare con nuova luce il testo: penso,
ad esempio, alla simmetria tra il movimento discensionale della mdp che
accompagna la protagonista durante il suo monologo e quello ascensionale
di Macbeth che si avvicina alla stanza di Duncan.
Le apparizioni?
Sono nell'occhio di chi guarda, cioè dello spettatore, suggerite dallo
sguardo in camera di un ottimo protagonista: György Cserhalmi.
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