martedì 8 dicembre 2015

"Giovanna d'Arco" alla Scala



Sono da sempre uno strenuo difensore di Giovanna d'Arco e lo sono tanto a dispetto dei facili entusiasmi quanto dei poco ragionati rimproveri. Verdi è abile giocatore di carte che dispone con accortezza sin da principio: è lo stesso autore che, di là a pochi mesi, ci darà Attila, abbozzerà Re Lear e Macbeth. Qui diciamo che il mazzo nella mano del compositore è anzitutto la drammaturgia di una dissociazione, temperata a metà tra il fantastico ed il soprannaturale: elemento quest'ultimo caro tanto a Solera quanto a Verdi, sin da Nabucco. Il Maestro, che era appassionato lettore della Bibbia (la raccomandò al poeta per la Profezia), lo era ancor più delle opere di Alfieri, sin da giovanissimo. Nell'atto secondo di Saul (1782) si trova il racconto dell'incubo in cui il sacerdote Samuele chiama il primo re d'Israele e la sua discendenza alla morte; è lui che gli «strappa la corona dal crine» per metterla sulla testa del nuovo re, David. Sono tormenti che si manifestano anche sotto forma di follia, ad opera di uno spirito maligno. Che personaggi scissi, disgregati, incapaci di ritrovare l'unità del proprio io, divisi tra fas e nefas abbiano sempre affascinato il giovane maestro - prima ancora dei vaneggiamenti di Nabucco e di Giovanna d'Arco, del tormento di Foscari, Attila, Macbeth e consorte, dei fratelli Moor - è un fatto suggerito dal soggetto dei Delirii di Saul, cantata in otto movimenti composta da Verdi nel 1828, per baritono e orchestra. Se l'affresco di Solera in Giovanna d'Arco non è quadro storico-epico suggestivo quanto I Lombardi e non dramma compiutamente risolto per quanto attiene al movente che porta alla condanna della protagonista, esso risulta comunque efficace nel preservare l'atmosfera mistico-politica di ascendenza mazziniana; di efficace brevità, non è uniforme nella tinta quanto lo è I due Foscari. È impossibile che Verdi non si sia reso conto dei limiti del libretto, tanto più che amando i soggetti nuovi si trovava a scrivere su uno già messo in scena da cinque operisti. Era la prima volta, però, che un testo gli offriva la possibilità di lavorare attorno ad una figura che (complici i cantanti a propria disposizione) resta motore immobile della vicenda, tanto che il côté privato (l'amore per il Re di Francia e quello del proprio padre) risulta strumentale a mettere in ulteriore risalto la centralità della Pulzella; per una drammaturgia altrettanto esclusivista bisognerà attendere La traviata. Giovanna d’Arco, insomma, «rimane un personaggio, per così dire, sospeso tra terra e cielo.» «Anzi», continuava Basevi, «quel farla ispirata dal cielo, mentre nulla aggiunge di venerazione in Giovanna, perché non trattasi di storia sacra, rimpicciolisce non poco l’eroismo di lei; imperocché non lo si vede nascere unicamente dalla nobiltà dell’animo». Il motore che innesca contraddittorietà e dissociazione del personaggio è offerto, dunque, dalle risorse del fantastico e del soprannaturale: «le cose non nostre» che, nonostante i rimproveri di Giusti, Verdi sentiva proprie e che per agire in Giovanna d'Arco non aspettano certo la musica in scena affidata al doppio coro di Spiriti, malvagi ed eletti, che alternativamente tentano e motivano la protagonista in sogno (I, sc. 5). Sotto forma di musica temporalesca, infatti, il fantastico evocato nei tuoni che accompagnano la tregenda entra in circolo da subito: prima nella Sinfonia e poi nel racconto del sabba, narrato dal coro dei Borghignani al re Carlo (I, sc. 2-3) che è favola in forma di diablerie. Quest'ultima assolve a due funzioni strettamente connesse: rammentare al pubblico, dipingendole musicalmente, quali fossero le credenze popolari del XV secolo e in conseguenza di ciò creare il presupposto drammatico per la reclusione dell’eroina cui, anche in mancanza di padre-baritono 'forte', si assiste nel corso del dramma.


È qui che Verdi ricorre a tutte le risorse del genere: sono le stesse formule che troviamo poi nel duetto Giovanna-Carlo (II, 4-6), dove designano il terrore della protagonista per il mancato adempimento del voto divino ed anticipano la pubblica accusa (il reato di stregoneria). Anche quando, nell'atto primo, le illazioni sulla foresta stregata sono sgombrate dalla risposta del Re («Dov’è Maria, convegno non ha l’Averno»), l'eco delle immagini diaboliche evocate dal coro permane in pittura sonora nel Temporale orchestrale (n. 4), a designare prima la paura di Giacomo e poi quella di Carlo che avanzano nel luogo. Dunque, se Verdi acquisisce le risorse offerte dal fantastico due anni prima di Macbeth, punto fragile resta la figura di Giacomo, tratteggiato privilegiando il tenero affetto paterno a discapito della bigotteria ossessiva e del carattere odioso della sua superstizione (Mila): insomma, il Thibault d'Arc dell'originale, uomo rozzo e credulo. Nella concezione musicale, però, questi elementi che compongono il parallelogramma delle forze drammatiche sono ben presenti a Verdi; il libretto, invece, non tiene il passo, specie nello snodo del finale centrale. La regia di Leiser-Caurier, portando la dissociazione della protagonista sul piano squisitamente psichico ed estremizzando così la funzione centripeta di Giovanna - una nuova Hadewijch, oppure Renata dell'Angelo di fuoco se stiamo alla letteratura operistica - ha dimostrato di saper raccogliere la sfida offerta dal libretto. Nulla di inedito, certo; non in Giovanna d'Arco, però. Ma, del resto, non si comprende per quale motivo, fruendo di operazioni di archeologia musicale, si debba rincorrere a tutti i costi 'la novità'. Tanto più che, in un caso come questo, lo spettacolo aderisce con coerenza alla drammaturgia, quella che corre neppure troppo sotterranea alla trama; anche le soste liriche che tendono ad ostacolare il movimento drammatico («Speme al vecchio» e «Quale più fido amico») sono efficacemente assorbite nell'universo immaginario della protagonista quali simboli di colpe da espiare. A monte del lavoro registico, una ricerca figurativa niente affatto insensibile e una conduzione dei cantanti che ha parteggiato - non poteva essere altrimenti - per le esigenze del canto. A chi non lo conoscesse, consiglio il bellissimo spettacolo di Lavia (Parma, 2008) il cui finale dell'atto terzo sostituiva all'esterno l'interno della cattedrale e alla parata militare e di popolo - sul ritmo festoso di marcia - il solenne incedere della protagonista fra i porporati; mimesi, due anni prima dell'apparizione di Duncano, della condizione volatile del potere. Ma veniamo ora all'ingrediente fondamentale: il canto.
La Netrebko tornava alla Scala dopo un forfait e una Donna Anna tutto fuorché memorabile; si è presentata qui ad un appuntamento importante, per un vero tour de force. In accordo con la lettura di Chailly, è una Giovanna lontana da turgori espressivi, intelligentemente impegnata a stemperare le parti più scopertamente drammatiche; con lei anche l'attacco di «Contro l'anima percossa» diventa eminentemente lirico. Si è difesa con onore dalle asperità della parte, confermandosi soprano lirico con una certa pienezza al centro, anche ottenuto impastando il suono quando gravita attorno al Fa, ma - a giudicare da quello che si ascolta in sala, dove il mezzo risuona più voluminoso che altra volta - senza compromettere la gamma acuta e la flessibilità della voce. Qui, a differenza che nel disco, dove viene eluso, lo scoglio del Re naturale è fraseggiato con gusto. Non si è sentita quella inerzia di accentazione che troppo spesso caratterizza le sue interpretazioni né certe riprese di fiato sono accorse a spezzare la linea del canto, segno che la parte è stata rimeditata. Di buon effetto anche il Si naturale nel cantabile del duetto col tenore, attaccato e subito smorzato. Se ricordiamo che le Giovanna degli anni Duemila si chiamano Devia e Vassileva (per entrambe un ruolo troppo pesante, e per la seconda anche riguardo all'estensione del pentagramma) non soffriremo di particolari rimpianti.
Francesco Meli è Carlo VII; un ruolo che gli sta assai meglio di Ernani, Manrico, Riccardo. Languido, smarrito e dolente, ha tratteggiato con gusto il personaggio che è vero antesignano di Don Carlo. Comodo nel registro centrale, lo è assai meno in quello acuto. Non squilla nella puntatura di «Tu pure un tempio» così come in quella nella ripresa della cabaletta; un fatto che gli sconsiglierebbe il canto stentoreo come, ad esempio, il ruolo Fraschini di Arrigo nella Battaglia di Legnano, l'altro titolo del Verdi minore bisognoso di attenzioni. È anche elegante in scena, bello a vedersi quasi fosse materializzazione della statua di Jeanne d'Arc in place des Pyramides (ma col giglio borbonico). Altrove, certo, restano la compostezza classica, l'accento ovunque nobilissimo e struggente del monarca Bergonzi; eppure la cabaletta di Meli guarda a quell'esempio, essendo riflessione sul peso del trono lontana da qualunque machismo. La scrittura di Giacomo, invece, pensata per le virtù del baritono Colini meriterebbe flessibilità, dolcezza, sonorità che sono sconosciute al mezzo di Cecconi. Voce fibrosa e che non è mai per davvero 'in sala', quando si tratta di cantare sul piano suona particolarmente indietro (i Fa di «so che fia schiuso ai miseri» e «ma l'anima maggior»); evidenti pure le difficoltà nelle prese di fiato in «Speme al vecchio». Una prestazione che resta sostanzialmente di emergenza anche perché, per applaudirlo con convinzione, bisognerebbe fingere di non trovarsi alla Scala.

La presenza di Chailly è garanzia di concertazione impeccabile, di bel suono ed è certezza di un equilibrato rapporto tra buca e palcoscenico. La sua è una lettura sorvegliata nelle sonorità, a tutto vantaggio del canto e degli artisti, accompagnati con gran classe e, complice l'edizione critica del 2008, la lettura del maestro appare profondamente rimeditata. Si può certo affermare che privilegi il versante lirico alle accensioni drammatiche, senza però dimenticare che ciò non s'intende affatto rinunciare alla messa in valore delle molte tinte di cui gode quest'opera: suggestivi, in particolare, i suoni ottenuti nella Gran Marcia Trionfale (quell'effetto di cannone in lontananza), anche grazie ad una disposizione di banda e di coro interno ovunque intelligentissima. Sotto la bacchetta di Chailly, il Coro dell'Introduzione è raccolto epicedio per le vittime (si veda il «Patria oppressa!», ma nella versione del '47) ben più che monito risorgimentale; quello suscitato da Levine, insomma. Se il direttore americano ha fede olimpica nel gesto melodrammatico - che non chiede di essere ammansito perché proprio dal proprio vigore trae sostegno la drammaturgia dell'opera - qui ci muoviamo nel solco tracciato da un maestro mai abbastanza rimpianto: Bruno Bartoletti. È vero che una nobilissima tensione morale percorreva tutta la sua Giovanna d'Arco; è lecito però domandarsi se buona parte del merito non spettasse alla presenza di un Giacomo come quello di Bruson. Ecco un esempio. L'interpretazione offerta da Chailly alla Sinfonia dell'opera, già nel CD dedicato a Verdi, si presta particolarmente alla situazione scenica immaginata dai registi: è rievocazione trasognata, coi suoi rallentando nella Pastorale e l'Allegro conclusivo non baldanzosamente pugnace. Quando mi domandano dove Verdi si mostri schiettamente romantico, il pensiero corre subito a questo brano: cosa c'è di più prossimo alla Romantik, infatti, di una pagina in cui all'impeto di una tempesta gravida di presagi stregoneschi si accosta un placido ranz des vaches? È il caratteristico e non la sublimazione classicista della campagna, ma piuttosto il tratto schietto ed ingenuo della protagonista; quello che si ascolta con chiarezza in Bartoletti, scontrato al temporale senza attenuazioni.

 

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