Sono da sempre uno strenuo difensore di Giovanna d'Arco e lo sono tanto a dispetto dei facili entusiasmi quanto dei poco ragionati rimproveri. Verdi è abile giocatore di carte che dispone con accortezza sin da principio: è lo stesso autore che, di là a pochi mesi, ci darà Attila, abbozzerà Re Lear e Macbeth. Qui diciamo che il mazzo nella mano del compositore è anzitutto la drammaturgia di una dissociazione, temperata a metà tra il fantastico ed il soprannaturale: elemento quest'ultimo caro tanto a Solera quanto a Verdi, sin da Nabucco. Il Maestro, che era appassionato lettore della Bibbia (la raccomandò al poeta per la Profezia), lo era ancor più delle opere di Alfieri, sin da giovanissimo. Nell'atto secondo di Saul (1782) si trova il racconto dell'incubo in cui il sacerdote Samuele chiama il primo re d'Israele e la sua discendenza alla morte; è lui che gli «strappa la corona dal crine» per metterla sulla testa del nuovo re, David. Sono tormenti che si manifestano anche sotto forma di follia, ad opera di uno spirito maligno. Che personaggi scissi, disgregati, incapaci di ritrovare l'unità del proprio io, divisi tra fas e nefas abbiano sempre affascinato il giovane maestro - prima ancora dei vaneggiamenti di Nabucco e di Giovanna d'Arco, del tormento di Foscari, Attila, Macbeth e consorte, dei fratelli Moor - è un fatto suggerito dal soggetto dei Delirii di Saul, cantata in otto movimenti composta da Verdi nel 1828, per baritono e orchestra. Se l'affresco di Solera in Giovanna d'Arco non è quadro storico-epico suggestivo quanto I Lombardi e non dramma compiutamente risolto per quanto attiene al movente che porta alla condanna della protagonista, esso risulta comunque efficace nel preservare l'atmosfera mistico-politica di ascendenza mazziniana; di efficace brevità, non è uniforme nella tinta quanto lo è I due Foscari. È impossibile che Verdi non si sia reso conto dei limiti del libretto, tanto più che amando i soggetti nuovi si trovava a scrivere su uno già messo in scena da cinque operisti. Era la prima volta, però, che un testo gli offriva la possibilità di lavorare attorno ad una figura che (complici i cantanti a propria disposizione) resta motore immobile della vicenda, tanto che il côté privato (l'amore per il Re di Francia e quello del proprio padre) risulta strumentale a mettere in ulteriore risalto la centralità della Pulzella; per una drammaturgia altrettanto esclusivista bisognerà attendere La traviata. Giovanna d’Arco, insomma, «rimane un personaggio, per così dire, sospeso tra terra e cielo.» «Anzi», continuava Basevi, «quel farla ispirata dal cielo, mentre nulla aggiunge di venerazione in Giovanna, perché non trattasi di storia sacra, rimpicciolisce non poco l’eroismo di lei; imperocché non lo si vede nascere unicamente dalla nobiltà dell’animo». Il motore che innesca contraddittorietà e dissociazione del personaggio è offerto, dunque, dalle risorse del fantastico e del soprannaturale: «le cose non nostre» che, nonostante i rimproveri di Giusti, Verdi sentiva proprie e che per agire in Giovanna d'Arco non aspettano certo la musica in scena affidata al doppio coro di Spiriti, malvagi ed eletti, che alternativamente tentano e motivano la protagonista in sogno (I, sc. 5). Sotto forma di musica temporalesca, infatti, il fantastico evocato nei tuoni che accompagnano la tregenda entra in circolo da subito: prima nella Sinfonia e poi nel racconto del sabba, narrato dal coro dei Borghignani al re Carlo (I, sc. 2-3) che è favola in forma di diablerie. Quest'ultima assolve a due funzioni strettamente connesse: rammentare al pubblico, dipingendole musicalmente, quali fossero le credenze popolari del XV secolo e in conseguenza di ciò creare il presupposto drammatico per la reclusione dell’eroina cui, anche in mancanza di padre-baritono 'forte', si assiste nel corso del dramma.
È qui che Verdi ricorre a tutte le risorse del genere: sono le stesse formule che troviamo poi nel duetto Giovanna-Carlo (II, 4-6), dove designano il terrore della protagonista per il mancato adempimento del voto divino ed anticipano la pubblica accusa (il reato di stregoneria). Anche quando, nell'atto primo, le illazioni sulla foresta stregata sono sgombrate dalla risposta del Re («Dov’è Maria, convegno non ha l’Averno»), l'eco delle immagini diaboliche evocate dal coro permane in pittura sonora nel Temporale orchestrale (n. 4), a designare prima la paura di Giacomo e poi quella di Carlo che avanzano nel luogo. Dunque, se Verdi acquisisce le risorse offerte dal fantastico due anni prima di Macbeth, punto fragile resta la figura di Giacomo, tratteggiato privilegiando il tenero affetto paterno a discapito della bigotteria ossessiva e del carattere odioso della sua superstizione (Mila): insomma, il Thibault d'Arc dell'originale, uomo rozzo e credulo. Nella concezione musicale, però, questi elementi che compongono il parallelogramma delle forze drammatiche sono ben presenti a Verdi; il libretto, invece, non tiene il passo, specie nello snodo del finale centrale. La regia di Leiser-Caurier, portando la dissociazione della protagonista sul piano squisitamente psichico ed estremizzando così la funzione centripeta di Giovanna - una nuova Hadewijch, oppure Renata dell'Angelo di fuoco se stiamo alla letteratura operistica - ha dimostrato di saper raccogliere la sfida offerta dal libretto. Nulla di inedito, certo; non in Giovanna d'Arco, però. Ma, del resto, non si comprende per quale motivo, fruendo di operazioni di archeologia musicale, si debba rincorrere a tutti i costi 'la novità'. Tanto più che, in un caso come questo, lo spettacolo aderisce con coerenza alla drammaturgia, quella che corre neppure troppo sotterranea alla trama; anche le soste liriche che tendono ad ostacolare il movimento drammatico («Speme al vecchio» e «Quale più fido amico») sono efficacemente assorbite nell'universo immaginario della protagonista quali simboli di colpe da espiare. A monte del lavoro registico, una ricerca figurativa niente affatto insensibile e una conduzione dei cantanti che ha parteggiato - non poteva essere altrimenti - per le esigenze del canto. A chi non lo conoscesse, consiglio il bellissimo spettacolo di Lavia (Parma, 2008) il cui finale dell'atto terzo sostituiva all'esterno l'interno della cattedrale e alla parata militare e di popolo - sul ritmo festoso di marcia - il solenne incedere della protagonista fra i porporati; mimesi, due anni prima dell'apparizione di Duncano, della condizione volatile del potere. Ma veniamo ora all'ingrediente fondamentale: il canto.
La Netrebko tornava alla Scala dopo un forfait e una
Donna Anna tutto fuorché memorabile; si è presentata qui ad un
appuntamento importante, per un vero tour de force. In accordo con la
lettura di Chailly, è una Giovanna lontana da turgori espressivi,
intelligentemente impegnata a stemperare le parti più scopertamente
drammatiche; con lei anche l'attacco di «Contro l'anima percossa»
diventa eminentemente lirico. Si è difesa con onore dalle asperità
della parte, confermandosi soprano lirico con una certa pienezza al
centro, anche ottenuto impastando il suono quando gravita attorno al
Fa, ma - a giudicare da quello che si ascolta in sala, dove il mezzo
risuona più voluminoso che altra volta - senza compromettere la
gamma acuta e la flessibilità della voce. Qui, a differenza che nel
disco, dove viene eluso, lo scoglio del Re naturale è fraseggiato
con gusto. Non si è sentita quella inerzia di accentazione che
troppo spesso caratterizza le sue interpretazioni né certe riprese
di fiato sono accorse a spezzare la linea del canto, segno che la
parte è stata rimeditata. Di buon effetto anche il Si naturale nel
cantabile del duetto col tenore, attaccato e subito smorzato. Se
ricordiamo che le Giovanna degli anni Duemila si chiamano Devia e
Vassileva (per entrambe un ruolo troppo pesante, e per la seconda
anche riguardo all'estensione del pentagramma) non soffriremo di
particolari rimpianti.
Francesco Meli è Carlo VII; un ruolo che gli sta
assai meglio di Ernani, Manrico, Riccardo. Languido, smarrito e
dolente, ha tratteggiato con gusto il personaggio che è vero
antesignano di Don Carlo. Comodo nel registro centrale, lo è assai
meno in quello acuto. Non squilla nella puntatura di «Tu pure un
tempio» così come in quella nella ripresa della cabaletta; un fatto
che gli sconsiglierebbe il canto stentoreo come, ad esempio, il ruolo
Fraschini di Arrigo nella Battaglia di Legnano, l'altro titolo del
Verdi minore bisognoso di attenzioni. È anche elegante in scena,
bello a vedersi quasi fosse materializzazione della statua di Jeanne
d'Arc in place des Pyramides (ma col giglio borbonico). Altrove,
certo, restano la compostezza classica, l'accento ovunque nobilissimo
e struggente del monarca Bergonzi; eppure la cabaletta di Meli guarda
a quell'esempio, essendo riflessione sul peso del trono lontana da
qualunque machismo. La scrittura di Giacomo, invece, pensata per le
virtù del baritono Colini meriterebbe flessibilità, dolcezza,
sonorità che sono sconosciute al mezzo di Cecconi. Voce fibrosa e
che non è mai per davvero 'in sala', quando si tratta di cantare sul
piano suona particolarmente indietro (i Fa di «so che fia schiuso ai
miseri» e «ma l'anima maggior»); evidenti pure le difficoltà
nelle prese di fiato in «Speme al vecchio». Una prestazione che
resta sostanzialmente di emergenza anche perché, per applaudirlo con
convinzione, bisognerebbe fingere di non trovarsi alla Scala.
La presenza di Chailly è garanzia di concertazione
impeccabile, di bel suono ed è certezza di un equilibrato rapporto
tra buca e palcoscenico. La sua è una lettura sorvegliata nelle
sonorità, a tutto vantaggio del canto e degli artisti, accompagnati
con gran classe e, complice l'edizione critica del 2008, la lettura
del maestro appare profondamente rimeditata. Si può certo affermare
che privilegi il versante lirico alle accensioni drammatiche, senza
però dimenticare che ciò non s'intende affatto rinunciare alla
messa in valore delle molte tinte di cui gode quest'opera:
suggestivi, in particolare, i suoni ottenuti nella Gran Marcia
Trionfale (quell'effetto di cannone in lontananza), anche grazie ad
una disposizione di banda e di coro interno ovunque
intelligentissima. Sotto la bacchetta di Chailly, il Coro
dell'Introduzione è raccolto epicedio per le vittime (si veda il
«Patria oppressa!», ma nella versione del '47) ben più che monito
risorgimentale; quello suscitato da Levine, insomma. Se il direttore
americano ha fede olimpica nel gesto melodrammatico - che non chiede
di essere ammansito perché proprio dal proprio vigore trae sostegno
la drammaturgia dell'opera - qui ci muoviamo nel solco tracciato da
un maestro mai abbastanza rimpianto: Bruno Bartoletti. È vero che
una nobilissima tensione morale percorreva tutta la sua Giovanna
d'Arco; è lecito però domandarsi se buona parte del merito non
spettasse alla presenza di un Giacomo come quello di Bruson. Ecco un
esempio. L'interpretazione offerta da Chailly alla Sinfonia
dell'opera, già nel CD dedicato a Verdi, si presta particolarmente
alla situazione scenica immaginata dai registi: è rievocazione
trasognata, coi suoi rallentando nella Pastorale e l'Allegro conclusivo non baldanzosamente pugnace. Quando mi domandano dove Verdi si mostri schiettamente
romantico, il pensiero corre subito a questo brano: cosa c'è di più
prossimo alla Romantik, infatti, di una pagina in cui all'impeto di
una tempesta gravida di presagi stregoneschi si accosta un placido
ranz des vaches? È il caratteristico e non la sublimazione
classicista della campagna, ma piuttosto il tratto schietto ed ingenuo della
protagonista; quello che si ascolta con chiarezza in Bartoletti,
scontrato al temporale senza attenuazioni.
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