Mi ha convinto “Maestro” di Bradley Cooper, e dire che stavo parecchio sul chi va là.
La scrittura è solida e il regista-sceneggiatore dimostra, eccome, di saper mettere la mdp. Per essere l’opera seconda di un attore mi pare questa assai più che una promessa; parola che è titolo del gioiello del suo collega Sean Penn, col quale la critica fu a suo tempo assai poco onesta. Lo è anche nel caso di Cooper? Non ho letto ancora nulla su “Maestro” a parte online qualche rimprovero poco circostanziato.
Sono uno spettatore che in fatto di film biografici su compositori e musicisti si dispone sempre con severa inclemenza, certo esagerando. Ma non conto che una mezza dozzina di pellicole all’altezza del compito: il Bach di Leonhardt/Straub/Huillet, “Bird” di Eastwood, il Liberace di Soderbergh, il sintetico ma formidabile ritratto di Liszt nella “Lola Montès” di Ophüls e, naturalmente, il più grande capolavoro fra i film che hanno per soggetto la musica: “La pianiste” di Haneke. Ma quella è tutta un’altra storia.
Cosa mancherebbe al film di Cooper? Forse ciò che dovrebbe esserci secondo musicofili in cerca di oggettività e completezza documentaristica? Ma per quelle bisogna rivolgersi altrove. E del resto mi pare che il film non possa scontentare neppure gli estimatori di quel genio infaticabile e trascinante che è stato The Big Lenny; variegato e niente affatto prevedibile, tantomeno nell’impiego filmico, è il ventaglio delle musiche, come sapidi sono gli ammiccamenti a testi e libretti.
Protagonista capace, per deliberata scelta del regista, di catturare più di lui (Cooper/Bernstein) l’attenzione degli spettatori è qui la formidabile Carey Mulligan che ho amato sin dai tempi di “Drive” e che trovo abbia lasciato adesso e in uno dei migliori film del decennio passato le sue forse più esaltanti interpretazioni: era la fragilissima e commovente sorella di Fassbender in “Shame” (McQueen, 2011) e ora è una meravigliosa Felicia Montealegre.
La tensione delle risposte contraddittorie che dà valore all’opera d’arte (esergo del film) trova nel lavoro di Cooper efficaci momenti in cui saggiarsi; e alla Mulligan ne sono riservati di preziosi. Sono pochi perché dosati in modo che in essi si concentri ciò che è espresso senza infingimenti. Penso alla bugia di Lenny con Jamie, che è sequenza di spiccata intensità nella quale il protagonista è avvicinato dalla camera laddove altrove la sintassi del privato predilige il campo lungo.
In una stagione cinematografica come quella appena passata, tutto fuorché esaltante, “Maestro” mi pare evidente eccezione.