Fondamentale o superflua è la visione di Everything Everywhere All at Once. Dipende da quanto siete aggiornati rispetto al filone che è andato costruendosi nei decenni fra cinema e tv attorno allo stesso tema. E dipende, in misura niente affatto minore, da quanto possedete o fate vostro il concetto hegeliano di morte dell’arte. Perché è sui contenuti sociologico-filosofici e non sulle forme (siano esse profilmiche o filmiche) che scommette il lavoro più premiato dell’anno. Potremmo infatti stare una settimana a enumerare tributi e riferimenti a una filmografia che occupa già almeno uno scaffale, concentrata attorno alla Many World Interpretation di Everett, alla teoria delle stringhe e alle ricadute sulla percezione umana delle realtà. È una filmografia che oltre alla scienza ha per capostipite la letteratura, quella di un vero genio visionario: Philip K. Dick.
Se la chiacchiera fosse puramente estetica, trovereste chi nel film americano ci ha visto molto Gondry e meno la serie tv Sense8. In realtà i tributi al regista indie non turbano - si fa per dire - l’estetica Netflix perché al cinema e a casa devono starci proprio tutti o in maggior numero possibile.
Non è furberia, non c’è dolo, secondo me. Il fatto è che la materia, l’idea di fondo, preme così tanto sulle forme da renderle trascurabili, già viste perché già straviste. A tenerle vive pensa sua Maestà il Montaggio.
È così che il film è un teorema con tanto di svolgimento tripartito. O una lettera al mondo; almeno a quello che non è attualmente impegnato a imbracciare un fucile.
Nel frullato elettronico-materico del soundtrack s’insinua per poco anche Debussy perché si va verso il finale, finalmente. Sono 139’ e la noia non è tra gli ammazzati.
Il congedo è speranzoso, ma non troppo. Perché ad un’umanità - la nostra - smarrita fra individualità frantumate, relazioni votate al silenzio e pressioni nella realizzazione socio-economica il raccomandare di percepirsi sempre e convintamente nel qui e ora deve essere parso giustamente eccessivo ai registi-sceneggiatori. Ma non per questo è invito da trascurare.
Se la chiacchiera fosse puramente estetica, trovereste chi nel film americano ci ha visto molto Gondry e meno la serie tv Sense8. In realtà i tributi al regista indie non turbano - si fa per dire - l’estetica Netflix perché al cinema e a casa devono starci proprio tutti o in maggior numero possibile.
Non è furberia, non c’è dolo, secondo me. Il fatto è che la materia, l’idea di fondo, preme così tanto sulle forme da renderle trascurabili, già viste perché già straviste. A tenerle vive pensa sua Maestà il Montaggio.
È così che il film è un teorema con tanto di svolgimento tripartito. O una lettera al mondo; almeno a quello che non è attualmente impegnato a imbracciare un fucile.
Nel frullato elettronico-materico del soundtrack s’insinua per poco anche Debussy perché si va verso il finale, finalmente. Sono 139’ e la noia non è tra gli ammazzati.
Il congedo è speranzoso, ma non troppo. Perché ad un’umanità - la nostra - smarrita fra individualità frantumate, relazioni votate al silenzio e pressioni nella realizzazione socio-economica il raccomandare di percepirsi sempre e convintamente nel qui e ora deve essere parso giustamente eccessivo ai registi-sceneggiatori. Ma non per questo è invito da trascurare.
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