«Poscia, più che ‘l dolor...». E pure io mi sono accontentato della differita di ieri sera, quella di “Otello”. Mi è sembrato di non aver perso tempo ed è già qualcosa, anche perché ho respirato aria di palcoscenico seppure a distanza. Merito della bacchetta premurosissima di Mehta (ricordo serate difficili come la “Jérusalem”) che ha offerto una lettura il cui pregio sta nella trasparente leggibilità, ma pure nella morbidezza di certi affacci Liberty e nella sofferta intimità di abbandoni calibrati sulle facoltà tutto fuorché titaniche dei cantanti.
Però non posso certo contare quello di ieri fra i migliori “Otello” ai quali abbia (avrei) assistito. Ma sono molti i migliori? No davvero. Metto in fila Thielemann e Caetani. Eppure il canto di Sartori ci ha risparmiato l’ennesima riproposizione dei tanti orchi e orchetti che in questi ultimi decenni si sono avvicendati nel ruolo del Moro.
Sartori è un Otello che trova espressioni di partecipata malinconia, scrupoloso quanto a dinamiche, offre nei momenti felici un legato di qualità. Se il limite del tenore resta l’atteggiamento compassato, qui ha trovato un linea di canto attraverso la quale specchiare una sincera partecipazione laddove non si può domandare certo all’attore di fare altrettanto. Quando il ruolo insiste sul passaggio superiore della voce Sartori risolve meglio di altri colleghi e la sostanziale assenza di squillo lo avvantaggia qui nella brunitura di certi passi. Se resta lontano mille miglia dalla profondità ragionatrice di un “Dio mi potevi”, lo scoglio del “Ora e per sempre addio” è superato semplicemente... cantando. Non è poco. Sono debutti, certo, da ridiscutere e che avrebbero trovato luogo più adatto che non la tv nazionale; ma i tempi che viviamo consentono anche questo.
Non pari distinzione spetta a una sostanzialmente anonima Rebeka, davvero periclitante nell’atto quarto. È la stessa cantante che vorrebbero spacciarci quale detentrice di una tecnica di ferro. Invece il mezzo s’incrina per tre volte in cinque minuti compitando l’Ave Maria (mica Leonora o Amelia). Se questa è una star...
Salsi mi è parso la solita maschera identica a se stessa, pressoché ovunque. Il canto di strozza e l’attitudine arcigna di ogni frase sono un poco occultate soltanto dalla figura e dalla naturale disposizione all’azione scenica.
Mi sono parsi buoni sia Cassio che Emilia.
Lo spettacolo che si sarebbe voluto allestire se le norme anti Covid non lo avessero menomato nei movimenti delle masse sembra un tale dejà revu da far sospettare l’intenzione di un tributo al kitsch, appena scaldato da timide velleità: un tulipano fa da bacchetta a Jago-direttore e qualche straccione compare in scena.
Poi l’opera è finita e ho letto una mezz’ora.
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