Si rimprovera al cinema sul cinema il peccato di autoreferenzialità. Ma in questo caso si avrebbe torto perché il film è immerso in vasta dimensione politica senza tradire - e perché dovrebbe - la propria identità tributale. Chissà se è andata davvero così, ma sarebbe bellissimo: Orson disintegra una cassa di bottiglie permettendo a Mank di trovare ispirazione per le sequenze di Kane che distrugge la stanza di Susan. Se è falsa, invece, - come credo - è ben pensata, capace quanto il resto di far parlare l’opera attraverso le biografie dei creatori.
L’adagio gobbelsiano della bugia è qui fuoco amico: il gotha che muove attorno a Mayer e Thalberg nella straordinaria età delle case di produzione in mano a ebrei hollywoodiani in gradi diversi turbati dalla barbarie nazista.
Mai si è visto sinora in una pellicola un tributo più sentito a nome e carriera di Upton Sinclair, inquadrato solo di spalle e da lontano per ingigantirne la presenza. E allora il film va ben oltre Hearst e il fattore umano che mosse la sceneggiatura del capolavoro wellesiano.
Quello di Fincher non è film per tutti, però. Volendo si trascorrono due ore piene in compagnia di un’opera che è tutta scrittura. Al punto che per gustarla appieno bisogna possederla per bene la lingua originale, senza farsi distrarre da sottotitoli stringati per necessità tanto fitti sono i dialoghi e le battute con understatement da antologia. Meglio ancora se si mastica già un po’ pure la storia cinematografica dei ‘30.
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