Nel giorno del Terzo Sciopero Mondiale per il Clima non posso che cominciare da Atlantis, visto ieri sera e per ultimo alla rassegna dei film "veneziani" a Milano. Nel suo rigore formale fatto di inquadrature fisse ed essenzialità dialogica, ben restituisce il raggelante contesto di una Ucraina dell'immediato futuro. Fra i riferimenti che mi paiono più diretti c'è quello a Il tempo dei lupi (Haneke). Ed è significativo il fatto che, ancora una volta, il futuro - prossimo certo (2025) - appaia sullo schermo del tutto sovrapponibile al nostro presente. Nel film sono protagonisti corpi che per trovare scaldati al nostro sguardo hanno necessità d'illuminarsi con luce termica. E poi, non meno raggelati, sono i cadaveri mummificati pronti alla catalogazione e al tavolo obitoriale.
La noia, invece, è protagonista indesiderabile del nuovo film di Tarantino (Once upon a time... in Hollywood): il solito giocattolone cinefiliaco (dove finisce la venerazione e dove comincia il parassitismo?) infarcito di déja revu con quarto d’ora di splatter finale e attori al posto giusto, tirati a lucido per l'occasione (e il botteghino). Si tratta di cose che, se una sceneggiatura siffatta fosse affidata ad un regista meno noto, con attori e budget meno sfavillanti, nessuno farebbe la fila per vedere il film. Mi domando, infatti, chi possa impazzirci e magari rivederlo varie volte. Forse qualche studente del primo anno, ancora completamente a digiuno di grammatica e storia del cinema: un adolescente che non conosce gli spaghetti-western e che non sa chi siano stati Charles Manson o Dennis Hopper? Meglio per lui, allora, il guardarsi altri film di "cinema sul cinema", per nulla pretenziosi e ben più interessanti di questo. Se penso, del resto, all’abisso che pure sul terreno di quegli anni Settanta stacca Tarantino da Anderson/Pynchon, riconosco che solo autentico merito di questo film è il fatto che ti faccia venir voglia di riguardare (per me sarebbe, credo, la quinta volta) Inherent Vice.
Insomma, è oggi opportuno andare in sala per Saturday Fiction (Lán xīn dà jùyuàn) allo scopo di trovare il cinema vivo, quello
rivitalizzante ingredienti e sintassi nientemeno che del noir-mélo. Qui, a me, è stata
sufficiente l’idea del possesso di una copia originale del Werther con
annotazioni di Nietzsche per provare un orgasmo bibliofiliaco.
Ema invece meriterebbe sicuramente una seconda visione, tanto è spiazzante anche in rapporto alla precedente produzione di Larraìn. Si tratta di spaesamento positivamente spiazzante. E dunque lode maggiore ad un ottimo regista che sperimenta nuove vie. Suggestioni formali e contenutistiche intense sono quelle che lo animano, per di più maturate attorno ad un quartetto di personaggi "antipatici"; elemento di non immediata presa sul pubblico, in particolare su quello che ignora certi aspetti sociali della realtà cilena.
Se Il sindaco del rione Sanità di Martone dimostra una volta di più la qualità della recitazione degli attori partenopei che frequentano il teatro eduardiano, l'opera prima del regista senegalese Mamadou Dia (Baamum Nafi) illumina una realtà di estremo interesse ma lo fa senza il fuoco sacro dell'ispirazione cinematografica; quella capace di tradurre la storia in immagini che si conservano negli occhi.
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