Mi sono fatto un’idea forse antipatica e tacciabile di malcelato classismo, ma coloro che mi vogliono bene capiranno.
Per comprendere le motivazioni che in Italia spingono tanta gente a
dileggiare le battaglie ambientaliste - capaci di mettere in discussione
il sistema di sviluppo - come del tutto assurde e foriere di pauperismi
nocivi alla salute dell’economia mondiale, bisogna ricorrere
all’insensibilità etica e civile che è andata ovunque maturandosi nel
tempo.
Cresciuto in seno alla società del consumo nel corso di
almeno tre decenni (‘80-‘00), e oggi giunto forse a un punto di crisi
tale da lasciarne intravedere il superamento, questo distacco
sostanziale dal bene comune è parente del rampantismo e del carrierismo
che hanno travolto logiche e visioni capaci di orientare lo sguardo ben
oltre il proprio naso. Testimonianze varie di questo distacco si trovano
anche oggi in un ventaglio di opinioni che va da Cottarelli a Feltri
passando per il rag. Cerasa, sulle colonne del suo quotidiano. Giocano
molta parte, certo, almeno nella massa, cinismo e fatalismo
deresponsabilizzante; tutte cose che precludono in partenza la capacità
di pensare l’altrimenti. Ma c’è di più, o di meno, a seconda di come lo
si guarda. C’è, io credo, la paura piccolo borghese di vedersi togliere,
come individui - misura unica della società - non ciò che si ha ma ciò
che si vorrebbe avere in più: tutto quello che alimenta le proprie
fantasmizzazioni, le proprie aspirazioni materiali e che dà forma,
appunto, alla piccola (o micro) borghesia urbana, sempre più estesa e
indifferenziata. I fenomeni sono complessi ed intrecciati e non sarebbe
giusto additare parte di una classe sociale come “responsabile”. Non lo è
affatto, almeno non in questi termini. Eppure è soprattutto in questo
milieu sociale che non mi stupisco stia la mancanza di “visioni” capaci
di suggerire una via.
Fra la borghesia alta e istruita, di quelle
pienamente realizzate, mi sembra di capire che le istanze ambientaliste
facciano breccia più facilmente, almeno a parole. Non solo perché una
migliore condizione economica predispone a immaginarsi diversamente (e
in meglio) ma anche perché, credo, si tratta di fette di popolazione
interpreti e a loro modo emuli, per ragioni storiche, di quella che fu
l’aristocrazia (viene in mente il d’Ormesson di A Dio piacendo):
strati sociali, insomma, che sembrano aver metabolizzato nel tempo,
meglio di altri, forza e pericoli del consumo indiscriminato di beni
materiali.
Mi riferisco a quella borghesia che all’ultimo gingillo
in voga preferiva acquistare beni di valore; ma solo perché,
intendiamoci, il gingillo poi - se ritenuto in qualche modo utile - lo
comprava comunque; non regalandolo, però, specialmente ai figli.
Per giustificare cose di questo tipo, un certo ramo del pensiero
marxista ricorre alla distinzione tra capitalismo e borghesia, intesa
come classe sociale dialettica che ha dato vita al capitalismo ma i cui
valori sono nel tempo divenuti incompatibili con la mercificazione
totale dell'esistente tipica del capitalismo assoluto (Preve). Sono
parole che possiedono il dono della sintesi ma che rischiano
d’imprigionare il ragionamento. La verità, infatti, è che quella stessa
borghesia (alta o medio-alta) cui prima sono sembrato lisciare il pelo è
stata gravemente responsabile negli anni di connivenza diretta con un
sistema consumistico del tutto disvaloriale, talvolta assecondandolo per
moda e altre per convinta adesione. Oggi rimettere il dentifricio nel
tubetto non è affatto facile, specialmente agli occhi di chi quei
disvalori si ostina, pure nel proprio piccolo, a perseguire.
La
questione merendine mi pare a suo modo emblematica. È una faccenda che
scalda soprattutto il piccolo borghese: colui che riterrebbe riprovevole
mandare a scuola il figlio con un cartoccio contenente una fetta di
pane casereccio spalmato di marmellata (o magari accompagnato da un
pezzetto di stecca fondente). “Roba da poveretti!” tuonerebbe allora,
laddove il borghese alto locato, invece, intendendo fare un complimento,
direbbe: “roba da contadini”. Ed era proprio un figlio di contadini
quello che alle scuole medie (anni ‘80) veniva prestissimo ogni mattina
fino a Milano col pullman - "per studiare meglio”, diceva - e che si
scopriva, reciprocamente, assai più in sintonia coi gusti estetici del
borghese benestante che non con quelli del figlio del piccolo
commerciante in carriera. Ma, già al ginnasio (anni ‘90), un compagno di
classe proiettato stabilmente dalla provincia a Milano rinunciava a
leccornie di qualunque sorta (di qualunque!) in previsione dell’acquisto
di una nuova camicia a firma americana, laddove lo studente che abitava
un palazzo disegnato dal Piermarini indossava senza troppe paturnie la
Lacoste del padre ancora in buone condizioni dopo trent’anni di
servizio.
Del resto, aveva già detto tutto Seneca a Lucilio:
«Divitias iudicabis bonum: torquebit te paupertas, quod est miserrimum,
falsa.»
(«Riterrai la ricchezza un bene: ti tormenterà una povertà falsa, il che è penosissimo.»)
Non so di preciso cosa augurarmi. Forse che, insieme ad azioni di
sconvolgente forza politica ed economica - quelle di cui abbiamo urgente
bisogno - passi a livello di coscienza comune, agendo noi tutti in una
società d’immagine e di fuffa, il concetto che “di buona immagine” e
“alla moda” è ben più la frugalità che persegue ricchezze autentiche,
durature e volenterose verso il prossimo che non una prepotenza cafona,
irrimediabilmente triste.
domenica 29 settembre 2019
venerdì 27 settembre 2019
Articolare la ricchezza (Terzo Sciopero Mondiale per il Clima)
Bisognerebbe intendersi sul significato di “ricchezza” in un mondo che
si avvicina a contare 10 miliardi di esseri umani (nel 2050).
Per me il definirsi “ricchi” (condizione che pretendo indispensabile ad ogni uomo sul pianeta) dovrebbe comportare quattro condizioni:
1/ il mangiare e bere prodotti prossimi al proprio luogo di residenza (minore impatto ambientale e maggiori possibilità di controllo e sicurezza);
2/ l’usufruire di trasporto pubblico regolare e sicuro per spostarsi senza essere costretti a farlo su mezzi propri, con impatto e fatica maggiori;
3/ l’opportunità d’istruirsi in istituti pubblici avendo a disposizione al contempo i principali mezzi della conoscenza (internet, biblioteche, musei);
4/ l’usufruire di un servizio sanitario efficiente e gratuito per tutte le necessità insopprimibili.
Due cose, per me, rientrano nella sfera del “lusso”:
1/ l’abitare una casa più ampia e confortevole (purché costruita senza alcun impatto nocivo sul territorio) rispetto a quella che è giusto considerare necessaria per ciascuno e per ciascun nucleo familiare;
2/ l’avere a disposizione una certa quantità di abiti e ninnoli che confortino la propria sensibilità estetica.
Tutto il resto appartiene alla categoria dell’eccedenza. Non a quella dell’inutile o del dannoso, ma a quella che raggruppa tutto ciò che per desiderarsi e pretendersi nel possesso avrebbe bisogno d’essere da noi stessi - e da chi è politicamente chiamato a rappresentarci - considerato in rapporto a due fattori fondamentali:
1/ le risorse limitate del pianeta;
2/ la considerazione di quanto, anche nell’immediato presente, manca agli altri.
In un mondo che è in grado di costruire in luoghi improbabili migliaia di km quadrati di serre automatizzate che producono tonnellate di frutta e verdura, d’impartire lezioni via Skype, di effettuare tramite internet operazioni chirurgiche complesse e di spostare persone e oggetti su mezzi privi di conducente (tutte cose irrealizzabili sino a vent’anni fa), dico che la questione essenziale non sta nel “come produrre ricchezza” ma nel come articolarla. È una cosa che si fa mediante il lavoro (sicuro e per tutti) orientato allo sforzo di comunità nazionali, coordinate pure nei rapporti con gli Stati esteri, affinché mezzi e conoscenza siano destinati dove servono e resi disponibili al maggior numero di abitanti della Terra.
A “lusso” per tutti penseranno altri uomini nel secolo venturo. Se dopo il nostro presente arriveranno vivi.
Per me il definirsi “ricchi” (condizione che pretendo indispensabile ad ogni uomo sul pianeta) dovrebbe comportare quattro condizioni:
1/ il mangiare e bere prodotti prossimi al proprio luogo di residenza (minore impatto ambientale e maggiori possibilità di controllo e sicurezza);
2/ l’usufruire di trasporto pubblico regolare e sicuro per spostarsi senza essere costretti a farlo su mezzi propri, con impatto e fatica maggiori;
3/ l’opportunità d’istruirsi in istituti pubblici avendo a disposizione al contempo i principali mezzi della conoscenza (internet, biblioteche, musei);
4/ l’usufruire di un servizio sanitario efficiente e gratuito per tutte le necessità insopprimibili.
Due cose, per me, rientrano nella sfera del “lusso”:
1/ l’abitare una casa più ampia e confortevole (purché costruita senza alcun impatto nocivo sul territorio) rispetto a quella che è giusto considerare necessaria per ciascuno e per ciascun nucleo familiare;
2/ l’avere a disposizione una certa quantità di abiti e ninnoli che confortino la propria sensibilità estetica.
Tutto il resto appartiene alla categoria dell’eccedenza. Non a quella dell’inutile o del dannoso, ma a quella che raggruppa tutto ciò che per desiderarsi e pretendersi nel possesso avrebbe bisogno d’essere da noi stessi - e da chi è politicamente chiamato a rappresentarci - considerato in rapporto a due fattori fondamentali:
1/ le risorse limitate del pianeta;
2/ la considerazione di quanto, anche nell’immediato presente, manca agli altri.
In un mondo che è in grado di costruire in luoghi improbabili migliaia di km quadrati di serre automatizzate che producono tonnellate di frutta e verdura, d’impartire lezioni via Skype, di effettuare tramite internet operazioni chirurgiche complesse e di spostare persone e oggetti su mezzi privi di conducente (tutte cose irrealizzabili sino a vent’anni fa), dico che la questione essenziale non sta nel “come produrre ricchezza” ma nel come articolarla. È una cosa che si fa mediante il lavoro (sicuro e per tutti) orientato allo sforzo di comunità nazionali, coordinate pure nei rapporti con gli Stati esteri, affinché mezzi e conoscenza siano destinati dove servono e resi disponibili al maggior numero di abitanti della Terra.
A “lusso” per tutti penseranno altri uomini nel secolo venturo. Se dopo il nostro presente arriveranno vivi.
Vasyanovych, Tarantino, Larraìn, Dia, Martone, Lou Ye
Nel giorno del Terzo Sciopero Mondiale per il Clima non posso che cominciare da Atlantis, visto ieri sera e per ultimo alla rassegna dei film "veneziani" a Milano. Nel suo rigore formale fatto di inquadrature fisse ed essenzialità dialogica, ben restituisce il raggelante contesto di una Ucraina dell'immediato futuro. Fra i riferimenti che mi paiono più diretti c'è quello a Il tempo dei lupi (Haneke). Ed è significativo il fatto che, ancora una volta, il futuro - prossimo certo (2025) - appaia sullo schermo del tutto sovrapponibile al nostro presente. Nel film sono protagonisti corpi che per trovare scaldati al nostro sguardo hanno necessità d'illuminarsi con luce termica. E poi, non meno raggelati, sono i cadaveri mummificati pronti alla catalogazione e al tavolo obitoriale.
La noia, invece, è protagonista indesiderabile del nuovo film di Tarantino (Once upon a time... in Hollywood): il solito giocattolone cinefiliaco (dove finisce la venerazione e dove comincia il parassitismo?) infarcito di déja revu con quarto d’ora di splatter finale e attori al posto giusto, tirati a lucido per l'occasione (e il botteghino). Si tratta di cose che, se una sceneggiatura siffatta fosse affidata ad un regista meno noto, con attori e budget meno sfavillanti, nessuno farebbe la fila per vedere il film. Mi domando, infatti, chi possa impazzirci e magari rivederlo varie volte. Forse qualche studente del primo anno, ancora completamente a digiuno di grammatica e storia del cinema: un adolescente che non conosce gli spaghetti-western e che non sa chi siano stati Charles Manson o Dennis Hopper? Meglio per lui, allora, il guardarsi altri film di "cinema sul cinema", per nulla pretenziosi e ben più interessanti di questo. Se penso, del resto, all’abisso che pure sul terreno di quegli anni Settanta stacca Tarantino da Anderson/Pynchon, riconosco che solo autentico merito di questo film è il fatto che ti faccia venir voglia di riguardare (per me sarebbe, credo, la quinta volta) Inherent Vice.
Insomma, è oggi opportuno andare in sala per Saturday Fiction (Lán xīn dà jùyuàn) allo scopo di trovare il cinema vivo, quello rivitalizzante ingredienti e sintassi nientemeno che del noir-mélo. Qui, a me, è stata sufficiente l’idea del possesso di una copia originale del Werther con annotazioni di Nietzsche per provare un orgasmo bibliofiliaco.
Ema invece meriterebbe sicuramente una seconda visione, tanto è spiazzante anche in rapporto alla precedente produzione di Larraìn. Si tratta di spaesamento positivamente spiazzante. E dunque lode maggiore ad un ottimo regista che sperimenta nuove vie. Suggestioni formali e contenutistiche intense sono quelle che lo animano, per di più maturate attorno ad un quartetto di personaggi "antipatici"; elemento di non immediata presa sul pubblico, in particolare su quello che ignora certi aspetti sociali della realtà cilena.
Se Il sindaco del rione Sanità di Martone dimostra una volta di più la qualità della recitazione degli attori partenopei che frequentano il teatro eduardiano, l'opera prima del regista senegalese Mamadou Dia (Baamum Nafi) illumina una realtà di estremo interesse ma lo fa senza il fuoco sacro dell'ispirazione cinematografica; quella capace di tradurre la storia in immagini che si conservano negli occhi.
La noia, invece, è protagonista indesiderabile del nuovo film di Tarantino (Once upon a time... in Hollywood): il solito giocattolone cinefiliaco (dove finisce la venerazione e dove comincia il parassitismo?) infarcito di déja revu con quarto d’ora di splatter finale e attori al posto giusto, tirati a lucido per l'occasione (e il botteghino). Si tratta di cose che, se una sceneggiatura siffatta fosse affidata ad un regista meno noto, con attori e budget meno sfavillanti, nessuno farebbe la fila per vedere il film. Mi domando, infatti, chi possa impazzirci e magari rivederlo varie volte. Forse qualche studente del primo anno, ancora completamente a digiuno di grammatica e storia del cinema: un adolescente che non conosce gli spaghetti-western e che non sa chi siano stati Charles Manson o Dennis Hopper? Meglio per lui, allora, il guardarsi altri film di "cinema sul cinema", per nulla pretenziosi e ben più interessanti di questo. Se penso, del resto, all’abisso che pure sul terreno di quegli anni Settanta stacca Tarantino da Anderson/Pynchon, riconosco che solo autentico merito di questo film è il fatto che ti faccia venir voglia di riguardare (per me sarebbe, credo, la quinta volta) Inherent Vice.
Insomma, è oggi opportuno andare in sala per Saturday Fiction (Lán xīn dà jùyuàn) allo scopo di trovare il cinema vivo, quello rivitalizzante ingredienti e sintassi nientemeno che del noir-mélo. Qui, a me, è stata sufficiente l’idea del possesso di una copia originale del Werther con annotazioni di Nietzsche per provare un orgasmo bibliofiliaco.
Ema invece meriterebbe sicuramente una seconda visione, tanto è spiazzante anche in rapporto alla precedente produzione di Larraìn. Si tratta di spaesamento positivamente spiazzante. E dunque lode maggiore ad un ottimo regista che sperimenta nuove vie. Suggestioni formali e contenutistiche intense sono quelle che lo animano, per di più maturate attorno ad un quartetto di personaggi "antipatici"; elemento di non immediata presa sul pubblico, in particolare su quello che ignora certi aspetti sociali della realtà cilena.
Se Il sindaco del rione Sanità di Martone dimostra una volta di più la qualità della recitazione degli attori partenopei che frequentano il teatro eduardiano, l'opera prima del regista senegalese Mamadou Dia (Baamum Nafi) illumina una realtà di estremo interesse ma lo fa senza il fuoco sacro dell'ispirazione cinematografica; quella capace di tradurre la storia in immagini che si conservano negli occhi.
mercoledì 25 settembre 2019
Madrigale senza suono
Non si giudica un libro dalla copertina. Questa è piuttosto bruttina
(quegli spartiti in un libro su Gesualdo?). Pure il titolo non conquista
al primo sguardo; per afferrarne il significato bisogna arrivare alle
ultime pagine. Ma è lettura intrigante e le ho raggiunte in fretta. Ha
vinto il Campiello pochi giorni fa.
Per testo e interpretazione che convivono, la struttura ricorda quella di Fuoco pallido (Nabokov). Qui, però, il ruolo di esegeta spetta a Stravinsky, presto alle prese col Monumentum. Il russo scopre per le vie di Napoli - e legge in traduzione col lettore - un apocrifo (falso? autobiografia?) della vita del principe assassino, dal convento alla morte. E si ritrova come noi tuffato in rabbuiamenti gotici e riverberi caravaggeschi: quelli più adatti a restituire vita, mito e musica di Gesualdo. Nella sua come in quella di Stravinsky - ma anche nella prosa di Tarabbia - «c’è in scena il mondo che la precede e che la avvolge». Ed è felice intenzione anche quella di dialogare coi padri «dando loro un linguaggio nuovo che ce li renda vicini»; sono tutte parole di un fervente stravinskiano che ha ricevuto dal Maestro lo stesso libro raro che l’autore inventa per noi.
Le fonti sono molto ben amalgamate per costruire invenzioni e sciogliere dialoghi.
Se antipatiche sono le troppe lodi riportate sul retro copertina (l’industria culturale predilige lo strillo), il romanzo merita attenzione specialmente laddove, senza smarrire l’itinerario di senso, accende con stile e registri adeguati i molti luoghi che sanno di umore, di sesso, sangue, budella, fra stridio di catene. È così che il protagonista guadagna statura da Enrico VIII, circondato com’è da concubine e fattucchiere, preti e servi, consumato dalla memoria del delitto, dalla tirannia dell’erede e dal vagheggiamento di un VII libro. Ah - vuol dirci - non fosse stata strappata al noviziato la vita mia consacrata alla musica!
Per testo e interpretazione che convivono, la struttura ricorda quella di Fuoco pallido (Nabokov). Qui, però, il ruolo di esegeta spetta a Stravinsky, presto alle prese col Monumentum. Il russo scopre per le vie di Napoli - e legge in traduzione col lettore - un apocrifo (falso? autobiografia?) della vita del principe assassino, dal convento alla morte. E si ritrova come noi tuffato in rabbuiamenti gotici e riverberi caravaggeschi: quelli più adatti a restituire vita, mito e musica di Gesualdo. Nella sua come in quella di Stravinsky - ma anche nella prosa di Tarabbia - «c’è in scena il mondo che la precede e che la avvolge». Ed è felice intenzione anche quella di dialogare coi padri «dando loro un linguaggio nuovo che ce li renda vicini»; sono tutte parole di un fervente stravinskiano che ha ricevuto dal Maestro lo stesso libro raro che l’autore inventa per noi.
Le fonti sono molto ben amalgamate per costruire invenzioni e sciogliere dialoghi.
Se antipatiche sono le troppe lodi riportate sul retro copertina (l’industria culturale predilige lo strillo), il romanzo merita attenzione specialmente laddove, senza smarrire l’itinerario di senso, accende con stile e registri adeguati i molti luoghi che sanno di umore, di sesso, sangue, budella, fra stridio di catene. È così che il protagonista guadagna statura da Enrico VIII, circondato com’è da concubine e fattucchiere, preti e servi, consumato dalla memoria del delitto, dalla tirannia dell’erede e dal vagheggiamento di un VII libro. Ah - vuol dirci - non fosse stata strappata al noviziato la vita mia consacrata alla musica!
[fra gli appunti, prima di morire]
«Si cade in un pozzo, si continua a cadere, si ripercorre la propria vita al contrario e si chiede perdono mentre si incontrano le persone che hanno avuto una parte nella vita nostra, anche coloro che abbiamo incontrato per un solo momento, coloro che non abbiamo veduto ma che ci hanno pensato, e della cui vita abbiamo occupato una piccola porzione di spazio, di tempo, ci si confessa e si chiede perdono, ma lo si dona, anche, perché tutti si cade, tutti si scende, tutti ci si incontra e tutti si chiede scusa, mia madre, il padre mio, Luigi fratello, Emanuele e Alfonsino figli amati, Giulio, Carlo di Milano, Maria Maria Maria Maria»
«Si cade in un pozzo, si continua a cadere, si ripercorre la propria vita al contrario e si chiede perdono mentre si incontrano le persone che hanno avuto una parte nella vita nostra, anche coloro che abbiamo incontrato per un solo momento, coloro che non abbiamo veduto ma che ci hanno pensato, e della cui vita abbiamo occupato una piccola porzione di spazio, di tempo, ci si confessa e si chiede perdono, ma lo si dona, anche, perché tutti si cade, tutti si scende, tutti ci si incontra e tutti si chiede scusa, mia madre, il padre mio, Luigi fratello, Emanuele e Alfonsino figli amati, Giulio, Carlo di Milano, Maria Maria Maria Maria»
venerdì 13 settembre 2019
La mafia non è più quella di una volta
Solo Maresco può far convivere una chicca come il Monk's Point (Take
1) di Thelonious coi latrati di un cantante neomelodico, così come fa
sovrapponendo l'immagine venerabile dei due martiri della patria ai
tanti mostriciattoli che cava dal ventre molle di Palermo. Il suo è il
nichilismo autentico, salutare, ostinatamente dissonante - anzi,
coltivato a distanza siderale - dalla società dello spettacolo; quella
che appiattisce sguardi e coscienze, che tutto digerisce e dimentica.
Ma Maresco non si sogna neppure un istante di ricorrere alla retorica, perché quella la tiene lontana come l'aglio con le streghe. Meglio, piuttosto, il compatire con un poco d'affetto i picciotti e i poveri cristi che ha portato davanti alla macchina da presa.
L'amica Letizia Battaglia gli rimprovera di essere "scettico", semplicemente; ma gli amici, si sa, ci guardano sempre sotto le luci che preferiscono. Noi, invece, abbiamo proprio bisogno dell'acume urticante di Maresco e della sua dolorosa intelligenza; bisogno di lui, irriducibile, che cede solo un momento per regalare all'amica nonostante tutto ottimista uno splendido fermo immagine, con sorriso e dita alzate a V.
Raccomandarvi il nuovo film (La mafia non è più quella di una volta) è far poco, perché le ragioni non stanno in un post. Ma andateci - oltre che per ridere bene e pure amaramente - anche per rincontrare un regista che col proprio arricchisce l'autentico amore per il cinema. E che difende un'idea d'immagine e di realtà alimentandola quanto più il materiale è povero, fragile, ma trattato con mano da grande manierista, ricordandoci che nulla è più difficile che fingersi trascurati.
Ma Maresco non si sogna neppure un istante di ricorrere alla retorica, perché quella la tiene lontana come l'aglio con le streghe. Meglio, piuttosto, il compatire con un poco d'affetto i picciotti e i poveri cristi che ha portato davanti alla macchina da presa.
L'amica Letizia Battaglia gli rimprovera di essere "scettico", semplicemente; ma gli amici, si sa, ci guardano sempre sotto le luci che preferiscono. Noi, invece, abbiamo proprio bisogno dell'acume urticante di Maresco e della sua dolorosa intelligenza; bisogno di lui, irriducibile, che cede solo un momento per regalare all'amica nonostante tutto ottimista uno splendido fermo immagine, con sorriso e dita alzate a V.
Raccomandarvi il nuovo film (La mafia non è più quella di una volta) è far poco, perché le ragioni non stanno in un post. Ma andateci - oltre che per ridere bene e pure amaramente - anche per rincontrare un regista che col proprio arricchisce l'autentico amore per il cinema. E che difende un'idea d'immagine e di realtà alimentandola quanto più il materiale è povero, fragile, ma trattato con mano da grande manierista, ricordandoci che nulla è più difficile che fingersi trascurati.
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