Lo posto qui un’altra volta perché è una lezione di umanità e di
estetica che tutti dovrebbero ascoltare. In appena sette minuti Bertolucci
manifesta un atteggiamento che sorprende per lucidità e febbricitante
entusiasmo; entrambe attitudini che a se stessi si dovrebbe sempre
chiedere nel confronto con l’arte. Più ancora che l’umiltà del regista
difronte all’opera di un gigante - e ben al di là dell’opinione che si
può avere su questo o quel film di Bertolucci - risalta qui l’itinerario
di una conoscenza (che è quindi sempre confronto) maturata attraverso
il tempo; tempo cui corrisponde una maturazione di coscienza, quella che
l’arte forma tanto per l’artista quanto per il fruitore. Lo stesso vale
o varrebbe per la musica, per la letteratura e per l’arte in genere.
Penso, invece, che oggi al linguaggio bombastico della pubblicità (il
biscotto di fabbrica? Divino! Superlativo!) corrispondano nella
ricezione quella fretta, quel facile entusiasmo, quella fame
presenzialistica che mangerebbe un’aragosta come fosse un panino, e
viceversa. Su questo aspetto ci saranno già, forse, studi di sociologia o
di scienze della comunicazione, ma io non li conosco.
La lezione
di Bertolucci mi fa pensare che squittire senza argomenti per ogni
sciocchezzuola, ogni “tributo a”, ogni baritono stonacchiante scambiato
per un prodigio, ogni scopiazzatura, ogni possessore di bacchetta
frainteso come una sorta di Fritz Reiner, ogni più o meno gradevole
scrittore salutato quale portatore di verità intellettuali sia - se la
parola non vi pare eccessiva - un impoverimento delle coscienze.
Al
grigio e prevedibile culto della cultura sarebbe bello sostituire
conoscenze, argomenti ed emozioni autentiche; alla retorica da
rotocalco, insomma, lo studio e l’amore per la memoria viva.
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