Raccogliamo
oggi i frutti folli dell'eccesso umano assistendo impotenti alle
ribellioni della Natura. Ed è per questo che, fra le molte altre cose, abbiamo bisogno di sederci
in ascolto di un'orchestra e di un direttore che ragionano - perché anzitutto ragionano - attorno ad
uno dei capolavori simbolo della Modernità. E importa meno se
mancano a questa Elektra pagine e canto che facciano balzare sulla sedia, magari
anche ricorrendo ad effetti speciali. Qui c'è infatti la capacità di
scavare laddove la pagina si fa più fitta e più difficile, dove si nascondono forme e suggestioni che aspettano di essere suscitate da mano sensibile; laddove il primo ascolto - specie se primo in assoluto - certo non arriverebbe.
La Scala ha ancora troppi posti vuoti per questo titolo: quasi un terzo del teatro tutte le sere. E allora bisogna andare a sedercisi.
Non si domandi a von Dohnányi la messa in evidenza di quei bruschi scarti di tono narrativo che staccano le sette stazioni dell'opera. Né gli si domandi quella partecipazione affettuosa e consolante che scalda, ad esempio, il secondo confronto fra sorelle e la nenia di Elektra al fratello. Già il motivo dell'affetto familiare è, infatti, asciugato nello spessore timbrico al primo apparire (monologo della protagonista), segno di una lettura che da subito si profila orientata al bianco e nero. Ma è proprio la sorvegliatissima scelta cromatica a consentire a von Dohnányi di delineare il corpo e le chiome di Elektra (agnizione di Orest) non accarezzandole nella magnificenza del crepuscolo ma col tratto appuntito da grafica della Wiener Secession; perché quelle pagine si guardano in un'orchestra di nitore e dinamiche sorprendenti, come riflessi di uno specchio tagliente che rimanda l'architettura di legni, ottoni ed arpe in un vero Silberdunst. Espunto è il seguito, come da tradizione, e in modo qui provvidenziale perché soccorre il soprano, Ricarda Merbeth, le cui risorse non stanno certo nello spessore del centro - così come in diversi suoni chiocci e vetrosi verso l'acuto - ma piuttosto in un'organizzazione molto oculata che le consente di sostenere parte tanto gravosa, offrendo intenzioni complessivamente valide che sono apparse conformi a quelle del direttore e meglio adatte ai passi lirici; un'interpretazione, quella del soprano, che ha riscattato la sua Leonore nell'ultimo Fidelio.
Ma è soprattutto quando la presenza scenica è quella evocativa della Meier/Klytämnestra (del suo canto resta solo un bisbiglio) che Dohnányi trova luogo per una ricognizione psicologica assolutamente sottratta ad ogni influsso descrittivo, esotico.
Qui non ci sono fulgidi bagliori espressionistici nel periodare dell'orchestra scaligera ma piuttosto un soppesare il materiale musicale che si scopre via via essere davvero, opportunamente, asfissiante. Allora i segmenti dei motivi del sangue si combinano attorno alle spire del groviglio dei serpenti ripetendosi con una fissità ipnotica che non trova soluzioni; è un'autoanalisi senza via di fuga e che neppure si concede temporaneo sfogo - come accade in altre letture - per restare, invece, invischiata nel suo stesso prodotto di sogni e di paure. Non i lampi, dunque, d'isteria psichica ma l'assillo riflessivo d'inesausti interrogativi: autentica «polifonia psicologica», come la definì il compositore. È questa una fissità wagneriana che accomuna al passo, più avanti, l'ingresso di Orest.
L'ascoltare dirigere von Dohnányi offre così il privilegio di condividere la somma esperienza di un anziano direttore che certamente indossa come una seconda pelle questa ed altre partiture novecentesche; sono occasioni preziose che consentono di uscire da teatro arricchiti di un'esperienza musicale frutto d'encomiabile lucidità nei riguardi del testo.
Se è davvero privo di suggestioni il canto della Hangler (Chrysothemis), di voce aspra e forzata in acuto, molto bene canta Volle (Orest). Fra il nutrito numero di comprimari si distingue anche per squillo Ein Junger Diener di Michael Laurenz.
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