Venerdì
sera, uscendo dalla Scala, terminata l'esecuzione più insignificante
della Messa da Requiem di Verdi cui abbia mai assistito,
riflettevo intorno all'importanza fondante della dialettica. I
pensieri non si spingevano certo sino a rievocare le parole di
Aristotele, ma si esercitavano piuttosto intorno alle peculiarità
più salienti del capolavoro verdiano che pure dall'abilità di porre
in discussione fra loro, con linguaggi polivalenti, le molteplicità
di piani e di atteggiamenti narrativi del testo liturgico trae
inesauribile forza vitale; e questa è anche la ragione più sincera
della natura tanto singolare della partitura nel panorama dei grandi
monumenti ottocenteschi della musica sacra.
Quella della Messa da Requiem è una dialettica fervida che conduce ad un'unità musicale assoluta. Coesione che scaturisce dal contrasto; è la potenza della sintesi. Nella molteplicità dei livelli che strutturano la composizione, infatti, l'espressione della religiosità rituale e rassicurante, manifestata dalla liturgia di testi coordinati allo scopo di suffragare le anime dei defunti, viene letteralmente frantumata da Verdi e presentata come un elemento estraneo alla voce dell'autore (ateo); un compositore che nei testi esalta al grado massimo le paure, le angosce, i terrori e le disperate suppliche intese non più come ingredienti trascendibili della medesima liturgia, ma come sostanze vive ed umanissime di un itinerario emotivo a giusto titolo definito “teatrale”. Ebbene, proprio in questa correlazione tra segmenti di testo illuminati in maniera differente risiedono le scelte dell'autore; e, per estensione, anche quelle dell'interprete, chiamato a farle proprie ma - al tempo stesso - impossibilitato a tacerne la natura contrastante e prismatica. Una natura che, per altro, s'intende superficialmente anche solo sfogliando la partitura, così gravida di segni dinamici e di espressione.
Quella della Messa da Requiem è una dialettica fervida che conduce ad un'unità musicale assoluta. Coesione che scaturisce dal contrasto; è la potenza della sintesi. Nella molteplicità dei livelli che strutturano la composizione, infatti, l'espressione della religiosità rituale e rassicurante, manifestata dalla liturgia di testi coordinati allo scopo di suffragare le anime dei defunti, viene letteralmente frantumata da Verdi e presentata come un elemento estraneo alla voce dell'autore (ateo); un compositore che nei testi esalta al grado massimo le paure, le angosce, i terrori e le disperate suppliche intese non più come ingredienti trascendibili della medesima liturgia, ma come sostanze vive ed umanissime di un itinerario emotivo a giusto titolo definito “teatrale”. Ebbene, proprio in questa correlazione tra segmenti di testo illuminati in maniera differente risiedono le scelte dell'autore; e, per estensione, anche quelle dell'interprete, chiamato a farle proprie ma - al tempo stesso - impossibilitato a tacerne la natura contrastante e prismatica. Una natura che, per altro, s'intende superficialmente anche solo sfogliando la partitura, così gravida di segni dinamici e di espressione.
Allo
straordinario repertorio di atteggiamenti e sentimenti umani posti di
fronte agli interrogativi sulla morte e la sofferenza provocati dal
testo della missa pro defunctis cattolica romana è parso
voltare le spalle Riccardo Chailly, chiamato a commemorare la
scomparsa di un interprete quale Claudio Abbado. Gli esempi
sarebbero molti, ma mi limito a rilevarne due. In luogo della tinta
inconfondibilmente stregonesca del contrattempo sul Quantus tremor
est futurus, troviamo
un'orchestra livellata tanto nei
colori quanto nell'espressione laddove, anche questa, invece,
dovrebbe mantenersi vibrante tra la prima e la terza sezione della
Sequenza.
E
particolarmente inerte ho trovato la resa di quella straordinaria
figurazione musicale che Verdi affida
al fagotto per sostenere il canto del mezzosoprano (Quid
sum miser tunc dicturus):
un profilo melodico che è incarnazione stessa, sul pentagramma, di
un anelito assetato che continuamente inciampa cadendo su se stesso
per ricominciare a soffrire: Adagio, pp,
espressivo.
Ma venerdì sera, complice una Elina
Garanča
d'impassibilità addirittura respingente, era impossibile scaldarsi
l'anima proprio in un passo nel quale la soggettività si manifesta
più vivida, e in primo piano; ma non è stato da meno il basso
Ildebrando D'Arcangelo che, nulla più che corretto, ha ripetuto
l'esposizione di Oro
supplex et acclinis
senza in alcun modo variare l'espressione, già compassata sino
all'imperturbabile.
Si
vorrebbe affermare che quella di Chailly e del quartetto vocale
(completato dal tenore sostituto Matthew Polenzani, di voce
essenzialmente bianca e scoperta) sia una lettura formalista,
estetizzante, alla ricerca di un'olimpica, cherubiniana
solennità; non foss'altro che il risultato è, in realtà, quello di
far implodere su se stessa la materia viva di cui pulsa la partitura
verdiana e che, come ho ricordato poc'anzi, si alimenta proprio della
dialettica tra registri stilistici, in continua tensione tra
religiosità topica e tormento soggettivo. In assenza di tutto
questo, anche gli equilibri tra sezioni risultano compromessi, perché
uniformati: il Lacrymosa giunge con tempo larghissimo ma non
sostenuto da adeguata tensione ed il Sanctus, che
nell'economia della Messa da Requiem assume una funzione
specifica di bilanciamento, è eseguito correttamente ma appare privato della
sua funzione.
Ascoltando
il soprano Anja Harteros, ho ripensato con nostalgia ed accresciuto
senso di straniamento alla “Mirellina” (Mirella Freni) e ad
Herbert von Karajan di fronte al quale la cantante si scusava di
avere una voce poco adatta nell'affrontare i ruoli Stolz per i quali
il maestro austriaco, innamorato della sua arte, la convocava: «mi
protesto da sola»,
diceva, con infinita modestia. Ebbene, ho ripensato proprio a lei e
al suo mezzo rotondo, sempre timbratissimo, duttile, intonatissimo e
- per un istante - l'ho affiancato a quello di questo soprano cui non
mancano alcune intenzioni musicali, affidate però ad una voce lirica
che cala e diventa fissa sugli acuti, in modo particolare nel Libera
me e, completamente vuota nel registro grave, pure parlante.
Tornando
al direttore, mi domando se, dimostrandosi privo delle risorse
coloristiche e dinamiche di Barenboim in un Requiem verdiano
che non fu poco interessante, la sua non sia semplicemente una
mancanza di affinità intellettuale con la partitura (ricordo anche una sua
esecuzione con l'Orchestra Verdi, una quindicina d'anni fa); trovo
che proporre, ad esempio, lo Stabat Mater rossiniano sarebbe stata
soluzione più congeniale.
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