Sono usciti, a poca distanza fra loro, due film biografici dedicati ai poeti italiani: il Pasolini di Ferrara ed Il giovane favoloso di Martone. Alla circostanza temporale si sommano caratteri comuni; entrambi i soggetti, infatti, sono incentrati su autori che furono sostanzialmente in dissonanza tanto col proprio tempo storico - che segnarono in maniera indelebile e con virtù addirittura profetiche - quanto nel confronto col contesto culturale loro contemporaneo, niente affatto concorde nel riservare l'accoglienza che oggi tributiamo deferenti. Tornano così alla mente i versi di Franz Grillparzer: «Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare».
Il film di Ferrara è lavoro non troppo riuscito, laddove invece l'opera di Martone possiede ben altro respiro. Cronaca di quel dannato giorno di novembre 1975, Pasolini accosta fra loro le parole e le azioni di vita quotidiana ai progetti letterari e cinematografici che restarono incompiuti; lo scopo è quello d'interpretarne sensi e significati in chiave essenzialmente umana, personale. Così il regista legge un desiderio di paternità nel Pasolini che stendeva la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal e indovina il soffio della morte nell'afflato onirico del progetto allegorico-fantastico dedicato al Re magio.
Nel Giovane favoloso di Martone, invece, l'ambizione è quella di far combaciare, sovrapponendoli, itinerario biografico e corpus letterario. Va ricordato che, per tutta la vita, Leopardi si oppose risolutamente ai tentativi di svilire la portata delle proprie convinzioni ogni qual volta fossero ricondotte alla sua sfortunata condizione fisica; tratto che, però, deve essere adeguatamente marcato in qualunque narrazione biografica sul poeta marchigiano. Tentazione estrema sarebbe quella di consegnare alla dimensione strettamente privata tutta la poetica leopardiana; penso soprattutto all'equazione che vede schierate da un lato poesia "immaginativa" e "sentimentale" e, dall'altro, fanciullezza ignorante del bene o del male e verità derivata dall'esperienza di una vita che fu poco immune alla sofferenza.
Anche coautore della sceneggiatura, Martone ha affrontato il problema scontrandolo a viso aperto: dialoghi e situazioni, infatti, si servono in massima parte di luoghi letterari autentici in una riuscita sintesi di poesia e prosa, epistola ed assaggio zibaldonesco lungo una linea narrativa che va dall'infanzia al soggiorno partenopeo, suggello di morte che sbuffa fumo nero come nella Venezia infetta di Mann/Visconti, ma non può che rimandare alla città di Renato Caccioppoli. L'itinerario in evoluzione del pensiero di Leopardi è concentrato ora in alcuni punti (penso ai riferimenti a Vico e agli illuministi), ora dosato con attenzione tanto nei contrasti con l'ambiente letterario romano quanto nelle battute sarcastiche dietro le quali s'intravede la dimensione cosmica del pessimismo. Il Leopardi che tutti conosciamo - ed è qui che sta la riuscita del lavoro - è precipitato nella vita vissuta e nei luoghi autentici, che possiedono una forza evocativa fuori dal comune; ad illuminarli una fotografia di sensibilità neoclassica e raffinata intelligenza (Renato Berta).
Correttamente, Martone pone una certa distanza tra il proprio eroe ed i fermenti risorgimentali, anche se l'epoca d'ambientazione è quella della prima parte del suo bellissimo Noi credevamo. Ed il film deve davvero molto ad Elio Germano che ha trovato in Leopardi un altro personaggio tormentato; ne esalta le caratteristiche più vitali, inarrendevoli, come la carne malata del poeta ed il suo infaticabile intelletto che brilla attraverso occhi di fanciullesca lucentezza.
L'estraneità d'accenti (teatralissimi) di Popolizio si replica, in maniera convincente, nella musica elettronica di Apparat affiancata al Rossini strumentale, sacro ed operistico (la Shabran già messa in scena a Pesaro proprio da Martone); davvero appropriata l'elegia dei violoncelli solisti del Tell scelta per accompagnare il gesto di Germano/Leopardi che affonda la mano nella terra alle pendici del Vesuvio.
Alcune suggestioni ritornano per saldare la materia. Ad esempio, quando il protagonista è accucciato accanto all'acqua di un mare nel quale gli è amaro il naufragare, sia l'Arno o il golfo di Napoli.
Il regista, invece, rischia davvero molto - e non è del tutto ripagato - quando l'indagine si sposta sul versante strettamente psicologico, tanto nell'immagine di Adelaide Antici come Natura e «madre di parto e di voler matrigna» quanto nelle sequenze ambientate nel bordello.
Comunque, quella di Martone si conferma una poetica che appartiene, a giusto titolo, al ramo sano del cinema italiano.
Nessun commento:
Posta un commento