Se nel Ritorno
di Cagliostro lo stravolgimento del
punto di vista narrativo giungeva a metà della pellicola, questa volta il
rovesciamento è immediato: Maresco - ci informa Sanguineti
cinque minuti dopo l'inizio del film - è scomparso, sommerso dalla
mole di materiale accumulato in pre-produzione. Mai così radicale ed autoriale (addirittura wellesiana) è stata
l'etica del fallimento, molto cara al regista palermitano che ama
spettacolarizzare la frana, propria ed altrui. Ennesima dissolvenza.
Nero. Il mockumentary
si fa da sé.
Il quartiere Brancaccio, la mafia, Berlusconi. Ma quello che Maresco
ricerca trascende il patrimonio di conoscenza dello spettatore e, al
tempo stesso, fa leva proprio su di esso. La complicità con il pubblico sta nel poter contare sul pregresso e, pertanto, il film ci avvolge in una materia
che si nutre soprattutto di altro (le più intime ragioni del fenomeno mafia in Sicilia) fino al "colpo di grazia finale" (parole di Sanguineti),
quando scopriamo che quell'altro è la ragione di tutto. L'omaggio del giovane neomelodico sulla tomba di Bontade,
infatti, è immagine di rara potenza (varrebbe, persino, come
epitaffio del genere mafia movie): nuova e vecchia mafia, con gli stessi valori ed i medesimi umori grazie ai quali
non cessa di fermentare.
Non
si poteva raccontare che così questa "storia siciliana",
come recita il sottotitolo; una storia italiana, ennesimo sottotesto. Torna in mente un lavoro del 1999: Enzo, domani a Palermo!
Il
mondo-cinema ed il manierismo del b/n alla Ciprì e Maresco (però, come già
in Totò che visse due volte,
la fotografia è di Luca Bigazzi) si esercitano ora
sull'estetica delle tv locali, delle feste in piazza, del sottobosco
neomelodico. Esaltante è la maestria nel mettere in valore ogni
risorsa figurativa, che sia frattaglia o documento storico, trattata con pari, umanissima dignità; quella che, da sempre, caratterizza la
poetica dell'ex duo; quella che non riesce a fare a meno della pietà,
del patimento, dell'amore per i reietti e i per luoghi abbandonati dal cinema italiano,
troppo spesso esteticamente uniformato. E consueto è lo stile jazzistico del
regista fatto di accelerazioni, frammentazioni e pause rapsodiche, percorrendo la storia (anche quella con la s maiuscola) e fuggendo
qualunque didascalismo. Tanto che la questione meridionale e il
brigantismo si trovano per un momento trascesi in un paradossale
chiasmo quando un intervistato - al Brancaccio non c'è accusa più
infamante che dire "carabiniere" - dichiara, da grande
estimatore di Berlusconi: "Bellusconi è come Garibaldi".
Il
cinema di Maresco continua ad essere duro e puro, complesso e
stratificato come lo sono i lavori importanti. Questo film è fatto
solo per chi ama il cinema: per tutti gli altri c'è la Guzzanti.
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