Nel nuovo film di Lanthimos mi pare tutto messo al posto giusto per il premio prestigioso che ha ricevuto, tranne dove la regia sembra correre dietro alla vicenda anziché alimentarla e dove la verbosità prende il posto dell’icastico, del mordace. Questo accade in diversi noiosi momenti e sono quelli durante i quali ho buttato l’occhio all’orologio in una sala, vivaddio, stracolma davvero anche considerando che si trattava di una proiezione in lingua originale.
Dico subito che io Lanthimos lo conosco e lo ammiro dai tempi in cui i suoi film (“Kynodontas” ancora prima di “Kinetta”) non passavano che a “Fuori orario” e li guardavamo in cinquanta sfigati. Poi l’autore ha giustamente guadagnato fama e attori di primissimo piano.
Allora i canini si sono fatti un poco meno penetranti nella purulenta carne delle convenzioni sociali, sua idée fixe. Ma io ho amato molto anche “The Favourite”, dove l’ambientazione d’epoca anziché inibire il vivacissimo eppur chirurgico occhio del regista (si è spesso ma inopportunamente tirato in ballo Kubrick) è invece capace di rilevare con sorprendente perché immaginativo realismo le insalubri atmosfere e le sottigliezze emotive che circondarono la regina Anne.
Sarà il fatto che arrivo dalla lettura di “Jude the Obscure” (lì altro che, come qui, messa a punto neopositivistica dei social standards comunemente accettati); oppure saranno le mie idiosincrasie nei riguardi di certa estetica alla Guillermo del Toro (e pure alla Wes Anderson seconda maniera). Ma questa volta le strategie del racconto filmico che Lanthimos - in grado oggi come pochissimi altri tanto di possedere in cifra autentica quanto di misurare poi sapientissimamente - mi sono sembrate debordare in favore del racconto, verso un cinema fatto a misura per l’intrattenimento di tanti dopo averli per una trentina di minuti destabilizzati quanto basta.
Comincio poi a maturare, specie qui su Facebook, un’allergia pungente nei riguardi dell’estetica figurativa prodotta da AI, tutta contorni stemperati su tinte fiammanti, convessità fatte per sfondare la profondità di campo. Attenzione: è formidabile nella “Favourite” l’impiego di lenti deformanti per necessità sintattiche. Ma qui il gioco visivo si ripete a perdere, sommandosi a un apparato scenografico sempre mutevole grazie alla computer grafica che incontra poi soluzioni di ripresa via via tediose perché prevedibili e che mi paiono così disinnescarlo.
La fabula è neofemminista, come si conviene oggi, e il finale è insolitamente liliale per un Lanthimos.
Quali e ben più preziose autopsie nel 2022 stavano sul tavolo da lavoro del vecchio Cronenberg (“Crimes of the Future”).
Una cosa Lanthimos non sbaglierà mai: la colonna sonora, pure quando nei suoi primi film non ne esisteva alcuna. Qui è firmata da Jerskin Fendrix e merita la lode.