Dopo aver assistito alla prova generale, aspettando la prima, mai posso stare lontano dal titolo; quindi riascolto Tosca.
Oggi questa edizione mi trova nuovamente sorpreso per modernità, concetto da intendere come fa il filosofo quando evoca in essa le categorie di razionalizzazione e di disincantamento.
La Tosca di Dallas mi sembra indovinare, infatti, aspetti fra i più prepotenti nella novità a cifra tondissima del catalogo pucciniano. Parte essenziale qui la giocano gli interpreti che, maestri fra i grandi, sono da sé in primo piano, anche festeggiati dal pubblico alla prima uscita in scena. Floria Tosca al quadrato - anzi al cubo (come morde il veleno della sua gelosia!) - corre lungo un filo nervosamente teso per indovinare frasi e accenti in ogni diverso luogo emotivo. C’è anche una spiccata vena ironica e disincantata, molto americana (ma Tajo esagera), convocata all’inizio per il dramma di verità e finzione. Del resto, quali intuizioni fanno di Tosca un apripista nel cosiddetto “universo della contraddizione” in rapporto alle avanguardie novecentesche e alle utopie del teatro!
Immediatezza sveltissima è quella della più romana delle opere; un’immediatezza direttamente proporzionale alle immense risorse del genio che l’ha creata. È una prossimità che diventa frettolosa nelle esecuzioni trascurate; fecondamente bruciante, invece, in quelle sensibili al dettato del compositore.
Così i tocchi comici e quelli di carezzevole leggerezza consegnati ai protagonisti nell’atto primo altro non sono che il risultato della desolazione che li aspetta. Creature musicali tutta scena, assediate da negazione e disperazione quanto più si dibattono in fronte al pubblico.
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