Con notevole ritardo raccolgo qui alcune note sulla nuova produzione di Manon Lescaut, ascoltata in replica un paio di settimane fa (13 aprile) e che sarebbe un peccato far trascurare alla penna, direi solamente per merito della direzione d'orchestra di Riccardo Chailly.
Che il maestro milanese nutra verso il genio di Puccini amore profondo e conoscenza capillare è questione fuor di dubbio. E, assistendo allo spettacolo, si dimenticano così le "grandi" questioni relative alla proposta della versione torinese del terzo titolo pucciniano, quelle che hanno vivacizzato il dibattito avant la prèmiere. Si tratta, come è noto, di pochissime pagine ma, per il finale atto primo, si sa, il differente peso drammaturgico conferito in concomitanza col cambio d'ambientazione fra i due atti resta rilevante (e per nulla risolto dalla messa in scena). Soddisfatta, insomma, la curiosità di ascoltare in teatro il concertato "difficile" così come l'inserto nell'ultima grande pagina della protagonista, permane - fortuna dello spettatore - l'impressione che tanto si possa continuare a farne correntemente a meno quanto che Manon Lescaut fosse un capolavoro già al suo primo apparire; perfettibile, appunto, come fu presto. Speriamo che, stante l'interesse di Chailly per le Ur-opere pucciniane, si possa ascoltare presto alla Scala La rondine del 1917: nei fatti, il solo titolo al quale i successivi interventi del compositore non apportarono miglioramenti.
Direi che la questione messa in campo da Chailly con Manon Lescaut non si possa comprendere appieno se non considerando anzitutto la grande difficoltà di eseguire quest’opera con pieno successo, necessitando di protagonisti assoluti e di livello altissimo. Gli spettatori non alle primissime armi ricorderanno, infatti, che la produzione dell'opera affidata a Guleghina/Cura/Muti/Cavani mostrava moltissime falle e il riversamento in CD comportò che il secondo tenore (Galouzine) non poté esibirsi neppure per una recita in teatro perché si doveva ancora trovare la serata “giusta”: lo ascoltammo in pochissimi, a sala vuota, durante la prova ante generale (non era affatto male, e certo assai meglio del primo). Parrebbe dunque che la scelta di Chailly sia stata, almeno in parte, orientata a proporre all’ascolto una Manon Lescaut che, non potendosi avvantaggiare di un cast a prova di bomba (la questione è pluridecennale), puntasse allora sulla curiosità di pagine inusuali.
È la sua direzione d'orchestra a lasciare nello spettatore l'impressione più felice. Si sarebbe portati ad immaginare che l'approccio storicamente informato del maestro lo guidasse con incisività verso la lettura di Molajoli (1930), con molta probabilità debitrice in linea diretta di quella toscaniniana, tanto lodata dal compositore stesso. Ma così non è, se non per lo schizzo festoso e tutt'altro che indugiante della piazza di Amiens; breve omaggio di Chailly, perché poi ad atmosfera distesa e a tempi garbati lo conduce il resto dell'atto. La bacchetta del maestro suscita in orchestra un suono bello per davvero, chiamandolo ad una cura del particolare strumentale capace di colorare con tinte luminose, ma mai soverchianti, una narrazione dalla tenuta drammatica impeccabile. Al maestro, soccorrevole nei riguardi del canto, preme offrire al palcoscenico le occasioni per la messa in valore; quelle che i grandi cantanti accoglierebbero per esaltarle e non per limitarsi a compitarle.
È forse sufficiente ascoltare il secondo abboccamento di Des Grieux e Manon, letto da Chailly attraverso una patina di signorile ma partecipata nostalgia, per misurare l'adesione musicale del direttore. Qui e altrove il maestro sollecita, infatti, le risorse di una partitura tantissimo rigogliosa ma per guidarla al servizio di una resa che, se avesse avuto complice l'allestitore, avrebbe conquistato assai più di quanto ha fatto il favore del pubblico, anche con un cast che è, appunto, per nulla memorabile. E questo perché le ragioni del direttore italiano, fedele - ma non per via diretta - ad un certo modo di restituire l'opera italiana al pubblico, vincono nelle occasioni più felici sul vezzo filologico. Ed è così che, ripercorrendo con affettuosità non lacrimevole la vicenda lungo il suo tragico destino, Chailly è parso coinvolgere bene l'uditorio che ha risposto con un ascolto attento e silenziosissimo, poi salutandolo con una buona dose di applausi.
Le lodi si arresterebbero al podio, dal momento che con Siri e Aronica siamo difronte a due interpreti da secondo o forse terzo cast (primo in un odierno teatro di provincia). L'interprete femminile resta assolutamente generica, in nulla avvantaggiata da un regista che giocando sul frustro espediente del doppio in scena (una lolita di Annaud con tanto di panama e pose da educanda) ne complica la già difficile credibilità scenica. Il canto è quello che sa offrire il soprano uruguaiano e cioè una certa maestria nell'occultare i limiti vocali, sempre più evidenti in un mezzo provato da un repertorio gravoso perché affrontato senza adeguata sapienza tecnica. La voce è molto ridimensionata sugli acuti che suonano perlopiù spinti e il centro è in bocca, dove resta. Inutile domandare alla cantante, impegnata a risolvere i passi ardui, di fraseggiare con proprietà e ricchezza, magari conquistando la sala con le grandi frasi e scaldando la parola pucciniana che è lì per essere accesa con espressione.
Il canto di Aronica è assai più sfogato di quello della collega, ma con lo svantaggio di offrirsi perlopiù aperto; altro segno di una vocalità provata dall'uso. Lo squillo del tenore resta invece buono e gli acuti sono considerevolmente la sua migliore qualità. È invece al centro che la voce suona davvero poco a fuoco (si ascolti «Ah Manon, mi tradisce»), ovunque altalenante nella resa del volume.
Per il ruolo di Geronte continuo a non prediligere un interprete buffo (Carlo Lepore); la parte del Tesoriere generale, di molta smania e livore, francamente non gli si addice perché l'effetto è quello, specie negli interventi durante il minuetto e successivi al duetto degli amanti, di raffreddare il tono drammatico anziché di offrire una variante logica al climax dell'atto secondo.
Sulla regia ferroviaria di Pountney si dirà pochissimo, compromessa assai più da espedienti consumati da troppe visioni che dall'ambientazione contemporanea al compositore; il quale, se per una volta troverebbe logico il fatto che il moderno bastimento stia attraccato al molo, si domanderebbe perché allora farvi viaggiare per condanna delle prostitute quando i biglietti con destinazione America vanno a ruba. Anche il finale dell'opera, lasciando sola Manon per ammiccare ad un pretestuoso "eterno ritorno della vicenda", raffredda quanto il direttore ha faticato a scaldare.
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