giovedì 8 marzo 2018
"Orphée et Eurydice" alla Scala
A poche ore dall'ascolto di Orphée et Eurydice alla Scala (finalmente la tragédie opéra/drame héroïque!) restano impressioni di segno positivo più sulla resa del canto e la realizzazione scenica che per quel che riguarda la conduzione dell'orchestra.
Quella di Mariotti è direzione dal passo garbato nelle danses e nei ballets, ovunque curata nell'equilibrio fra sezioni, ma anche molto avara di colori, troppo uniforme nelle dinamiche e sostanzialmente insensibile alle mutevoli atmosfere drammatiche che del capolavoro gluckiano sono caratteristica saliente, al grado massimo proprio nell'intonazione francese. Complice una disposizione dell'apparato scenico (l'orchestra al centro su praticabili semoventi) che da principio assai poco avvantaggia la relazione col canto (gli squilibri sonori sono ben percepibili in sala), l'atto primo è parso anello debole della serata; non tanto per il mancato contrasto fra l'Ouverture e la trenodia che ha trovato l'inflessione del lutto doloroso solo nella ripresa che segue la Pantomime, quanto piuttosto nell'Air en rondeau «Objet de mon amour!». Qui l'affetto del protagonista è apparso rimpicciolito in favore di una visione intima, certo, - quella che si adatta al tenore di mezzo carattere quale è Florez - ma anche del tutto sottratta all'elegia tragica del momento, disegnando la bacchetta per il protagonista un accompagnamento assai poco ispirato che ha suggerito così i moti di un dolore per nulla partecipato, di maniera, quando invece esso dovrebbe cantarsi su un'orchestra che aumenta con propria eco l'inconsolabile afflizione del trace cantore: haute-contre la cui scrittura insiste qui, ben più che sull'acuto, attorno ad espressive incursioni al grave («Avant l'aurore», «La vaste enceinte», «Mon coeur endure!») che si vorrebbero sonore e piene, per marca virile, tragica. Va ricordato, infatti, che la «grandiosità» di Gluck è sì «quieta» ma grandiosa, appunto; «semplicità» la sua, certo, ma che sia «nobile» e non genericamente amorosa, affettuosa, perché questa poco si confà ai canoni della tragédie opéra.
Alla sostanziale estraneità di accenti, appunto, tragici, Florez - sempre applauditissimo beniamino del pubblico milanese - supplisce grazie alla ben nota musicalità e ad una tecnica salda (si veda l'energica esecuzione della chiusa atto primo) pur nella diminuita facilità con la quale oggi giunge all'acuto. La sua linea del canto gravita per lo più attorno al mf e offre prolungandolo sulla mezzavoce un solo momento davvero suggestivo: «Quel nouveau ciel pare ces lieux?».
In due pagine è apparso penalizzato dal direttore che non ha inventato una conduzione capace di sottrarsi all'inerzia comunicativa: l'implorazione agli spettri e il più celebre Air dell'opera («J'ai perdu mon Eurydice») nel quale non si è riusciti ad eludere l'effetto «saltarello» tanto paventato dal compositore. Per misurare le risorse coloristiche e dinamiche della partitura gluckiana e per una lettura evocativa delle pagine qui citate si può riascoltare, fra le più recenti, l'incisione di Minkowski.
La regia si avvantaggia a partire dell'atto secondo con indovinati effetti di luce e una coerente impostazione della scena: è il mondo ultraterreno suggerito da architetture metafisiche che alla nuova morte di Eurydice lasciano scoprire belle tinte violette e traslucide. Puntuali i contribuiti dei due soprani (Karg e Said) ma sulla locandina non è riportato il nome dell'interprete di Une Ombre heureuse; errata, invece - come il titolo (Euridice) - la dicitura «Azione drammatica in tre atti», trattandosi qui della versione francese, come ricordato al principio.
Nel contesto di un'esecuzione che esibisce un impianto sostanzialmente semiscenico trova ragione la coreografia di Hofesh Shechter che con Fulljames ha curato pure la regia dello spettacolo: sono danze animate da gestualità a metà fra aderenza all'azione rappresentata e divertissement pop.
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