DOGLIE D'ARTISTA
Su Phantom Thread (P.T. Anderson, 2017)
V'era in lei qualche cosa di compìto, come nell'albero che ha dato il suo frutto, come nel campo che è stato mietuto, come nella corrente che è giunta al mare. La sua necessità interiore era come la necessità dei fatti naturali, delle maree, delle stagioni, delle vicende celesti.
(Gabriele D'Annunzio, Il fuoco)
I believe in you my soul, the other I am must not abase itself
to you,
And you must not be abased to the other.
(Walt Whitman, Song of Myself, 82-83)
Con
Phantom Thread
(2017) la storia del cinema si è arricchita di un capolavoro. Parola
che andrebbe taciuta o appena sussurrata per non farle torto, spesa
soltanto per opere come questa capaci di leggersi su più strati, da
diverse angolazioni; lavori in cui la forma aderisce al contenuto
tanto in profondità da confondersi in esso.
I
registi? Anche bravissimi, ottimi, e quelli che allestiscono il
repertorio teatrale per infaticabile omaggio agli anni Ottanta di
Russell e Sellars. Poi, però, c’è Paul Thomas
Anderson.
All’ottavo lungometraggio le traiettorie lungo le quali percorrere la filmografia del cineasta californiano si sono fatte abbastanza pregnanti e distintive da intenderle come poli d'attrazione attorno ai quali far gravitare la sua poetica. Si potrà, ad esempio, cominciare, o meglio ricominciare, a verificare per quali vie contribuisca alla narrazione la colonna sonora di Jonny Greenwood, nuovo frutto della pregiatissima collaborazione con Anderson. E poi, magari, orientarsi verso le individualità protagonistiche poste in dialettica opposizione che qui, ancora una volta, giganteggiano accanto a figure minori ma balzachianamente sbozzate. Oppure, si potrà valutare in quale misura quella sorta di trilogia americana che precede Phantom Thread (There Will Be Blood, The Master, Inherent Vice) dialoghi col film d'ambientazione inglese e dove siano, per iniziare, le affinità col primo episodio della stessa. Allora saremmo subito a Daniel Day-Lewis, già superba incarnazione del petroliere Daniel Plainview, ora qui stretto come Reynolds Woodcock al suo due di coppia Alma Elson (Vicky Krieps) in un vincolo che è sempre nesso evolutivo anzitutto per reciproco e feroce asservimento tra protagonisti. Un legame metamorfico che è negato a Cyril, sorella di Reynolds con la quale more uxorio il sarto divide «la casa di morti» in Fitzroy Square.
All’ottavo lungometraggio le traiettorie lungo le quali percorrere la filmografia del cineasta californiano si sono fatte abbastanza pregnanti e distintive da intenderle come poli d'attrazione attorno ai quali far gravitare la sua poetica. Si potrà, ad esempio, cominciare, o meglio ricominciare, a verificare per quali vie contribuisca alla narrazione la colonna sonora di Jonny Greenwood, nuovo frutto della pregiatissima collaborazione con Anderson. E poi, magari, orientarsi verso le individualità protagonistiche poste in dialettica opposizione che qui, ancora una volta, giganteggiano accanto a figure minori ma balzachianamente sbozzate. Oppure, si potrà valutare in quale misura quella sorta di trilogia americana che precede Phantom Thread (There Will Be Blood, The Master, Inherent Vice) dialoghi col film d'ambientazione inglese e dove siano, per iniziare, le affinità col primo episodio della stessa. Allora saremmo subito a Daniel Day-Lewis, già superba incarnazione del petroliere Daniel Plainview, ora qui stretto come Reynolds Woodcock al suo due di coppia Alma Elson (Vicky Krieps) in un vincolo che è sempre nesso evolutivo anzitutto per reciproco e feroce asservimento tra protagonisti. Un legame metamorfico che è negato a Cyril, sorella di Reynolds con la quale more uxorio il sarto divide «la casa di morti» in Fitzroy Square.
Sin
dalle prime sequenze è Alma a delimitare il racconto e a proporre
una traccia di verità incorniciata fra segmenti del colloquio col
figlioccio di Lady Baltimore, Robert Hardy, che lo schermo ci
mostrerà soltanto più avanti. Per ora la voce del dottore in
attento ascolto al tepore di un caminetto sollecita la giovane donna
con brevi domande, confidenze che stanno a metà fra lettino dello
psicanalista ed intervista da rotocalco.1
Phantom
Thread traccia
un orizzonte di sensi che
maturano nella visione lungo molteplici stratificazioni alle quali è
conferito spessore variabile in base alle impronte che lo spettatore
mette in diverso valore. Il tutto, però, avviene senza compromettere
l'assetto complessivo, di saldezza inoppugnabile.
Già
le sequenze d'apertura, dunque, giocano su elementi le cui ambiguità
orientano verso una dimensione fondata su sottintesi vantaggiosi alla
narrazione, attorno cui è sapientemente calibrata pure la trama
musicale. Alla colonna sonora, infatti, è presto affidata funzione
essenziale nell'illustrazione del contesto d'epoca
mediante pennellate di tinta rassicurante e glamour
che con soffice impasto pretenderebbero avvolgere di sé ogni
fotogramma. Ma, assai più sottilmente, la pittura musicale
d'ambiente persegue ed ottiene tramite un'accurata strategia di
contrasti - cui non è estraneo un affinato tono canzonatorio - la
messa a fuoco dei diversi registri espressivi del film e, insieme,
delle sue differenti chiavi d'accesso. Obiettivo, dunque, depistare e
sedurre l'orecchio più che lo sguardo per chiamarli entrambi a nuova
attenzione quando serve.
La
trama musicale di Phantom Thread sfoggia
contributi che scandiscono nell'equilibrio delle forme ora sezioni
limitate, ora interi periodi narrativi; la visita della principessa
Mona Braganza è, ad esempio, tutta cadenzata sull'opus 39 n. 11 di
Brahms. Per larga parte l'habitus musicale del film è ricercatamente
uniforme, salvo laddove puntuali asprezze in formazione cameristica
sono chiamate a sgualcire la trama vintage appena
tessuta. Quando il soundtrack tace
del tutto, invece, è più spesso là che si precisa davvero la
funzione altrove conferita alla colonna sonora.
Come
ha dichiarato Anderson, Greenwood è musicista al quale si possono
domandare i brani giusti come si farebbe con un jukebox, ma
capace in aggiunta di prodigiosa inventiva personale.2
E per Phantom Thread ha questa volta impaginato, fra gli
altri, accanto a ben diciotto brani di nuova composizione, il sound
ovattato di Oscar Peterson e morceaux del repertorio
classico-romantico che stanno a metà fra rigore della scrittura ed
indole salottiera. Si rifletta, per esempio, al contributo
schubertiano cui il regista riserva trattamento eloquentemente
calibrato sul passo delle immagini anche nella sfilata della nuova
collezione presso la maison del sarto. Qui
l’esposizione dei temi dell'Allegro
del Trio per
pianoforte n. 2 si arresta sulla sezione di
scrittura più densa del brano, quella dello sviluppo del materiale
musicale, per farle coincidere con mano geometrica l'immagine
dell'occhio di Reynolds che impaziente prende a scrutare il défilé
dallo spioncino di una porta.3
La pagina è infine silenziata sul viso esausto del protagonista che
reclina la testa. Si tratta di relazioni che vivificando musica e
fotogrammi contribuiscono a porre in massimo valore la forma,
intesa quale estrinsecazione in immagine artistica del contenuto,
perché è nel rigore, appunto, della forma musicale che Anderson
specchia il riflesso di un'esistenza talentuosa e fiaccante come
quella del protagonista. È un passo questo, dunque, che interseca
l'attività del creatore d'abiti con l'armoniosa e intransigente
forma in cui è ripartito il brano cameristico, una pagina in cui
Schubert lascia convivere un tema musicale affermativo e
intraprendente, di asciuttezza beethoveniana, per temperarlo presto
con una frase femminile, aggraziata e titubante, prima raccolta in
pensoso rimpianto e poi poco a poco rianimata da un vigore che si
appassiona sino a bruciarne, mentre già prepara un nuovo affaccio
sul promontorio del ricordo. Potremmo intendere questa addirittura
quale epitome in musica della personalità di Reynolds Woodcock.
Torniamo
all'incipit del film. Sullo schermo a nero, la prima suggestione
offerta allo spettatore è di natura musicale e poi, in brevissimo,
anche squisitamente sonora. Già
sibilano i primi lacerti vetrosi e tossici del Boletus
felleus,
nome del brano che identifica pure il fungo volgarmente detto
“porcino di fiele” per via di un sapore amaro quanto prossimo è
l'aspetto di quelli ricercatamente commestibili; per il palato miele
oppure fiele. Come
l'amore, al quale sarebbe però biasimevole far aderire tout
court
le ragioni sostanziali del film, essendo quell'affetto soltanto
scheletro di un plot
che è sì vicenda di mésalliance
sentimentale
ma sulla quale s'impolpa ben altra materia.
In
un clima sin da principio teso e misterioso, l'audio s'insinua dopo
pochi secondi con un sonoro che giunge all'orecchio a metà tra
crepitio della pioggia contro un vetro e ceppi in un fuoco; quando
allo spettatore si consegnano i primi fotogrammi, può così
identificare alla luce la fonte del suono che scalda il viso di Alma
Elson. Reynolds ha trasformato i suoi sogni in realtà, confessa ad
Hardy con un vezzoso sbatter di palpebre che ripeterà, con ben
maggiore ed ammiccante insistenza, all'indirizzo di Woodcock
preparando per lui il manicaretto avvelenato. Sarto e dottore sono le
uniche due significative presenze maschili in un film interamente
avvitato sull'universo femminile; la rivalità fra i due uomini e,
forse, un tradimento di Alma sono spunti suggeriti tra le escursioni
dalla linea retta.
«Every
piece of me». Alma tutto ha dato di sé. E quando Hardy le domanda
ancora a proposito di Reynolds,4
già nel soundtrack le
dita sondano carezzevolmente la tastiera di un pianoforte mentre il
viso della giovane donna si prepara a raccontare le virtù del «most
demanding man», aureolato da quella corona di velluto musicale che è
House of Woodcock:
brano che
pretende per sé la tinta
dominante del film, consegnando con la propria cantabilità cortese e
seducente, bella e facile già ad un primo ascolto, l'impronta
stilistica della pellicola e con essa l'atmosfera sentimentale che
vorrebbe gli si addicesse maggiormente.5
Sulle
morbide carezze della musica, tutta languori e slancio nelle frasi
degli archi che ricadono avvitandosi su se stesse come in un gioco
complice di mani che stringono e rilasciano, Reynolds si prepara con
cura meticolosa in sette mosse (altrettante inquadrature) a fare il
proprio ingresso in scena nel racconto per quella recita d'ogni
giorno che è la vita alla Woodcock House. Passa energicamente sulle
guance la spuma da barba, lucida una scarpa, usa la forbice per i
peli del naso e delle orecchie, tampona una lozione sul viso, pettina
i capelli all'indietro con due spazzole. Poi lascia scorrere per bene
sul magro polpaccio lunghe calze color cremisi. Ed è questo un
particolare d'abbigliamento che salta subito all'occhio e che si
riproporrà, fra i sintomi della prima intossicazione micotica, in
un'inquadratura chiamata a stringere la mdp per dettagliare sui piedi
la gracilità bambinesca e femminea del personaggio. Infine Woodcock
indossa anche i pantaloni, sempre con studiata attenzione.
Esterno
in un'alba invernale londinese: l'abitazione in Fitzroy Square.
All'interno, Cyril apre gli scuri di una finestra che affaccia sulla
piazza, poi accende la luce allo specchio in una stanza attigua
mentre un’inserviente esce dalla stessa. La nuova inquadratura
mostra l’ingresso delle sarte nello stabile fra un cadenzato «good
morning».
Il suono del pedale al pianoforte è smorzato con sentimentale
eleganza e l'affabile urbanità di certe romanticherie in Technicolor
tramite cui il regista sembra proprio invitarci a condividere la
storia che si apre. Ora la house
si anima mentre il brano musicale è chiamato pure ad illustrare
l'armoniosa laboriosità di un ingranaggio, cantando lieto attraverso
il vortice delle scale, i cappotti appesi, i riti quotidiani.
Woodcock esce dalla propria stanza, saluta per nome tre sarte. Poi,
con altre, le signore cominciano il lavoro in sartoria.
Se
è agevole intuire quanto il Pygmalion
di Bernard Shaw e certe suggestioni hitchcockiane abbiano ispirato
Anderson nella definizione del soggetto, è possibile supporre fino a
che punto The Turn of the
Screw abbia lasciato
traccia in Reynolds e Cyril, novelli Miles e Flora divenuti adulti e
sempre imprigionati da segreti inconfessabili all'ombra inquietante
di trascorsi maledetti. Quei misteri che ad Anderson non è affatto
necessario dettagliare nel racconto. Anzi, il cineasta lavora tanto
per sottrazione quanto per sapiente alterazione dei piani narrativi,
specialmente quando per accumulo giunge in vicinanza del finale,
affrancandosi da una stretta consequenzialità logico-narrativa
essendo riuscito a far guadagnare ai protagonisti tale ricercatezza
di tratti e dimensione autorevole da permettere loro d'interagire
sotto gli occhi dello spettatore quali figure di rilevanza, senso e
significati prossime all'astrazione metaforica. Ma è questo un
aspetto che si affronterà più avanti.
Come
il sarto Woodcock fa con ritagli inseriti fra le pieghe delle proprie
creazioni, scrittura e realizzazione andersoniane sono in grado di
conferire agli aspetti più riposti e dissimulati nel carattere dei
personaggi forza sorprendente quanto più tali risvolti si
mimetizzano alla vista. Si tratta, in primo luogo, di tormenti e
inclinazioni che nella Gran Bretagna del 1955 indoviniamo possibili
in uno scapolo sessantenne di gusto sopraffino, creatore d'abiti di
lusso contesi dalla bella società britannica, cresciuto ad ago e
filo nel culto sacro di una madre della quale porta cucita sul petto,
nella fodera della giacca, una ciocca di capelli. In occasione delle
seconde nozze di lei, il sedicenne Reynolds ha confezionato l'abito
nuziale. Lavorando per mesi e mesi, sudando curvo su un lavoro al
quale nessuna donna ad eccezione di Cyril metterà mano in ragione -
racconta il sarto - della superstizione che reca con sé ogni abito
da sposa promettendo la maledizione del nubilato. E per lui sarà
quella del celibato; constatazione implicita il cui valore risalta
quanto più essa si sottrae a chiarimenti.
Quello
che affligge Reynolds Woodcock è - indovina lo spettatore - il peso
di trascorsi ed assenze che lo apparentano alla sorella, ora
distaccata sino al respingente quanto sfuggente ed acquoso è il
sorriso sempre pronta ad allestire sul volto.
È
con lei che il sarto divide i ritmi di un'esistenza laboriosa, priva
di futili imprevisti e non estranea all'ufficialità perché
dipendente dalle relazioni con l'aristocrazia del Regno. È
Cyril che, sorbendo flemmatica il tea
del
morning breakfast,
afferma di poter annientare Reynolds a piacere: «I'll go right
through you and it'll be you on the floor».
Ed è
lei che sa anche quando limitarsi a suggerire al fratello, col aplomb
di
chi indovina e instrada le intenzioni del proprio interlocutore,
che per Johanna,
musa-collaboratrice del momento, «the
time as come»
e che sarebbe appropriato congedarla scegliendo per lei l'abito di
ottobre.
Reynolds
Woodcock è
la propria maestria: instancabile, coltivata da mani femminili per
una clientela esclusivamente femminile grazie ad un'arte appresa sin
da giovanissimo mortificando, per sacrificio ad essa, un'identità
che immaginiamo formatasi senza far lievitare in armonia vita e
talento, desideri e dovere. Autoreferenziale come lo sono i bambini e
gli artisti, abita un contesto ritmato e prevedibile, ideato per
turbarlo il meno possibile. Anzi, per non turbarlo affatto, perché è
nella quiete e nella bellezza che in sostanziale solitudine si crea
una quieta bellezza.
Reynolds
Woodcock, dunque: couturier-demiurgo
che coi gesti del proprio ingegno affascina donne desiderose di farsi
ammaestrate sulla strada dell'eleganza e del buon gusto. Come Daniel
Plainview, possiede la personalità del protestante ed è con
concentrazione religiosa che serra gli occhi in espressione di
profondo raccoglimento mentre Henrietta tiene strette le sue mani
dopo la prova dell'abito per ringraziarlo dicendogli: «Worth
all we've gone through. It makes me feel like I have courage».
Reynolds
si mantiene lontano da focolai di sessualità, come pure, se proprio
non è costretto, dalle occasioni mondane che animano i giorni di una
società ricca, insensibile alla fatica e alla dura lotta, preferendo
restare tuffato nel lavoro con dedizione assoluta, sotto la frusta di
un attaccamento che ha del monastico. «It's
really not my place. This is what I do. This is my place, here».
Così oppone il proprio rifiuto a Barbara Rose che insiste ad
invitarlo al proprio matrimonio, per il quale con indefessa cura egli
prepara un voluminoso vestito.
Previdenza,
spirito di sacrificio, puntualità, austerità e rigore interiore
sono cifre di Reynolds, sposato al proprio lavoro. L'amore pare
davvero essere un privilegio che non sa concedersi né per il
prossimo né per se stesso; un sentimento estirpato dal ruolo entro
cui il metallo della propria volontà lo ha blindato. Woodcock
ha ritagliato per sé uno spazio armato di silenzi, rigore e
aggressività verbale che non risparmia espressioni del turpiloquio:
in bocca a lui sembrano costargli la sofferta irriverenza dei bambini
che sanno di trasgredire. Un equilibrio emotivo vacillante protetto
al costo di abitare muri che sembrano invalicabili, come Reynolds
vuole le porte richiuse dopo il proprio passaggio quando, seguito da
Alma, corre fino al bagno della camera da letto.
Al
primo incontro con l'impacciata cameriera, nella sala da pranzo
dell'hotel Victoria, il sottofondo musicale lascia strofinare piano
piano le soavità estenuate di My
Ship per
congedarle solo all'appuntamento in auto verso la cena al ristorante.
Qui la coppia dei nuovi conoscenti trova la Berceuse
di Fauré,6
altro accompagnamento musicale in sordina la cui genuina dolcezza,
evocazione del mondo infantile, culla un tête-à-tête
di dichiarazioni intimamente sincere che tutte gravitano attorno alle
madri, sotto la
luce ovattata di una romantico dinner.
Della propria, Reynolds
conserva imbottite sul cuore l'immagine e la reliquia dei capelli. E
Alma? È
appena più palpabile del fantasma che vediamo comparire sullo
schermo nella camera da letto di Reynolds. Pare proprio non esser
fatta per essere toccata e posseduta. Per essere vestita sì, e
mantenuta attorno a un immaginario estetico continuamente
perfettibile, prima ritoccando il rossetto sulle labbra, poi la veste
attorno al seno cui conferire, grazie a un trucco da stilista, volume
a piacere («It's
my job to give you some if I choose to»),
e poi ancora a tutto il resto sempre tramite l'expertise
sartoriale.
Con
malcelato stupore della ragazza, la conversazione al ristorante
gravita dunque sulle madri perché la donna è relazionata da
Woodcock ad un immaginario protettivo e malinconico, foss'anche
quello che scaturisce al pensiero della madre di lei: «Did your
Mother have brown eyes?»; «Do you look very much like her?»; «Do
you have a photograph of her?». Non
ci sarà ruolo ufficiale per Alma in casa del modellista,
continuamente confusa tra le sarte dell'atelier.
Sarà lei ad
imporre per sé un ruolo differente, anche servendosi di un tocco di
discrezionalità estetica: un colletto nero indossato bene a vista
sopra il camice bianco che è d'ordinanza per le dipendenti della
maison (qui
siamo alle
sequenze che precedono l'ultimo confronto a tre nella stanza da
lavoro di Cyril).
Esterno
notte. L'auto corre per giungere alla casa di campagna del North
Yorkshire. Nel soundtrack,
come un
chiaro lunare di dolci promesse, si ascolta Endless
superstition,
certo per conferire profondità sentimentale al ritratto della madre
di Reynolds e alle superstizioni attorno all'abito da sposa. Poi, per
più di due intensissimi minuti, e per la prima volta, lo scambio di
battute fra Woodcock ed Alma è privo di qualunque accompagnamento
musicale. I due siedono difronte al caminetto per un
corpo a corpo che non lascia scampo.
Il
focus è concentrato su parole e sguardi che Alma scommette dapprima
con la stessa complice e poi via via sempre più incerta
determinazione con cui ha promesso al sarto di batterlo nel gioco di
chi distoglierà gli occhi dall'altro; il mezzo di chi cerca
penetrare una verità e dovrà almeno per il momento retrocedere.
-
You're a very handsome man. You must be around many beautiful women.
Yes? So, why are you not
married?
-
I make dresses.
-
You cannot be married when you make dresses?
-
I'm certain I was never meant to marry. I'm a confirmed bachelor. I'm
incurable.
-
Hmm.
-
Marriage would make me deceitful and I don't ever want that.
-
You sound so sure about things.
-
I'm sure about that.
-
I think you're only acting strong.
-
No, I am strong.
-
For who? Not for me, I hope.
-
I think it's the expectations and assumptions of others that cause
heartache. Would you help me with
something?
-
Yes.
-
Come on.
Le
occhiate, ora saettate ed ora trattenute a stento, distogliendo il
viso o nascondendolo in parte dietro alle mani, terminano quando
Reynolds gioca lo scacco matto alzandosi dalla poltrona segnando così
la fine della partita. Un'eco imbarazzata della conversazione permane
nelle sequenze successive, ancora per diversi secondi prive
d'intervento del soundtrack:
ora Alma, visibilmente a disagio, si trova spoglia, in
sottoveste, nel laboratorio del sarto che con meticolosità clinica e
in concentrato silenzio comincia il proprio lavoro.
Sin
da subito ogni promessa di erotismo si sublima nell'algebra, nelle
prese di misura di un abito. Non per l'androgina Cyril che di Alma
riconosce e apprezza con calma le fragranze in un formidabile e
imbarazzato ménage à trois i
cui strumenti di piacere sono olfatto, taccuino e metro a nastro.7
Ed è il momento per Alma di riacciuffare le redini della storia.
Facendo ricantare le note di House of Woodcock,
il suo voice over ci
informa infatti di una bellezza sconosciuta, scoperta per merito
delle forbici di Reynolds, incorniciando sullo schermo immagini di
vita di coppia: una passeggiata sulla costa,8
mano nella mano in una via cittadina e poi sedendo per cena al solito
ristorante con l'immancabile Cyril. E il tutto gravita in
un'atmosfera sospesa, di desiderio inappagato (sino alla metà del
film non vedremo alcun bacio).
La
trasognata House of Woodcock
è già sfumata sulle armonie pungenti di The
Hem quando,
finalmente a casa in Fitzroy Square, Reynolds mostra ad Alma la
stanza a lei destinata; e con sorpresa, credendo la donna dividere il
letto con lui. Rumore di porte che si chiudono da dentro, il viso
adombrato di Alma e poi ancora una confessione del voice
over:
«Sometimes
we wake up at 4.00 in the morning...».
Perché nessuna come lei sa stare in piedi ore intere per un prova
d'abito. Ed è da qui che la storia della cameriera diventata
mannequin
si fa racconto di una resistenza fisica, di un adattamento alle
consuetudini di un contesto umano tutto edificato sul culto di forme
e maniere belle, opportune. Il ruolo che cuce addosso per sé è
quello che Reynolds le giudica adatto: modella d'abiti e musa
personale. Quello che invece pretenderebbe, ingaggiando una lotta di
conquista perlopiù silenziosa, è il ruolo di fidanzata.
Le
sole sequenze che accennano all'intimità fisica della coppia sono
incastrate, con abilissima e musicale dissimulazione, in un nuovo
arco temporale organizzato dalla colonna sonora e che muove dalla
cena a quattro interrotta dalle ammiratrici del couturier
fin oltre la colazione guastata
dal comportamento incauto di Alma. Attorno
al tavolo del ristorante, infatti, guizza
il secondo movimento del Quartetto
di Debussy col pizzicato nervoso, percussivo, e l'ostinato che lo
attraversa nella sua interezza pure quando le frasi degli archi si
sdilinguiscono in brevi lacerti; enfasi ben più sardonica che
amabile.9
Su
questa pagina, stravagante fino all'esotico, il montaggio incastra
svelto, quasi temendo di farsi accorgere, l'esito della fuga verso
casa di Reynolds e Alma, che ha finalmente accesso alla camera da
letto del sarto. Al mattino seguente, qualunque auspicio o
presunzione avrà modo di correggersi.
Non
fugge altrettanto lesta, invece, durante il dinner
un'imbeccata da lei rivolta a
Reynolds: «have you had enough to eat? You seem thirsty...».
Continua qui, dopo
la lunga ordinazione del breakfast
nella sala da pranzo dell'Hotel Victoria e, poi, già intorno al
tavolo del solito ristorante (Woodcock ad Alma: «You look beautiful,
realy. Very beautiful. You're making me extremely hungry.»), nuova
traccia di un ingrediente della narrazione impiegato per porre in
relazione il cibo al sesso: attività sublimata sullo schermo
nell'appetito gastrico. Non senza feroce ironia per un hungry
boy che scopriremo nutrirsi
anche di piatti avvelenati.
Più
defilata, invece, ma di altrettanto rilievo è la battuta che il
protagonista rivolge piano a Nigel (George Glasgow): l'amico sarebbe
capace di aprire la tomba per recuperare il vestito in cui
l'ammiratrice di Woodcock pretenderebbe essere avvolta per la
sepoltura. Ben più che antipasto di Barbara Rose e del suo
ingombrante abito recuperato da Alma, l'accenno vale nel fil
rouge della conservazione
artistica, che guadagna peso particolare nel finale. In entrambi i
casi (hungry boy e
deperibilità delle creazioni di moda) si tratta di elementi pronti a
risaltare sull'insieme, lavorati con intelligenza sopraffina e dosati
con l'asciuttezza dei grandissimi.
La
conoscenza di Woodcock da parte di Alma procede al passo con la
nostra. Scopriamo in lui, come già in Daniel Plainview, una visione
conflittuale della vita e la coazione alla riuscita professionale
quale protesi di privazioni interiori che appaiono incolmabili. Sono
là per alimentare le ansie di un uomo profondamente chiuso e
tormentato, laddove il successo nel mestiere, pure assaporato per
fuggevoli istanti, sembra potersi intendere essenzialmente come
riscatto che è in realtà impossibile compensazione. Giace ora nel
letto della casa di campagna; Alma ha guidato per lui fino a là. Il
corpo è quello di un uomo sul limitare della vecchiaia, imbacuccato
nella lana in una camera mantenuta in penombra. Rifiuta una pietanza
ma accetta un abbraccio mentre nel soundtrack
un
cimbalom
suona melanconico il tema avvelenato (Phantom
Thread,
in una versione duo che non figura nell'album).10
La sonorità dello strumento, trattato similmente a un banjo,
ha il colore che
si addirebbe ad una dolente ballad
da vecchio West,
cui giunge a far
compagnia una viola d'amore sino ad offrire sullo schermo proprio le
lamelle velenose del Bolletus.11
Intanto
il voice
over,
mostrando
per la prima volta anche l'interlocutore di Alma, ci ha informati
titubante ed esplicativo: «You see, when you... when you love your
work and you can give like he does, you need to come down, again. And
then he's... he's a baby. Like a spoiled little baby. When he's like
this, he's very tender, open.»
Sono
episodi che affliggono Woodcock e che durano pochi giorni; poi sta di
nuovo bene, rassicura Alma. Ogni feroce lotta - e la più dannata è
quella con se stessi - reca all'affanno e alla prostrazione fisica,
con il solo apparente scopo di poter raccogliere le forze per lottare
nuovamente. Perché è negli strati più profondi
dell'essere che abita il destino di Reynolds Woodcock, fatalmente
tragico laddove alimentato da forze inquiete che condizionano
un'esistenza costruita paradossalmente proprio in forza di esse e
condotta a tutto vantaggio della maestria professionale; sin
dall'adolescenza, immolata
sull’altare del
taglio e cucito. A tratteggiare
ancora, ma più compassionevolmente, questa fragilità disarmata e a
suo modo sublime, ascolteremo liquidi tocchi impressionistici (The
Tailor of Fitzrovia)
a seguito del primo
avvelenamento del couturier,
sempre assistito nel letto da Alma Mater premurosa.
Però
come già in The Master,
e forse mai con
altrettanta determinazione, Anderson non si arresta qui alla
dimensione psicologica del dramma né tantomeno alla ricognizione nel
privato di un monstrum.
Si ha addirittura l'impressione che non da là sia voluto partire
orientandosi piuttosto, e sin da subito lavorando al soggetto con
Daniel-Day Lewis, verso una tragedia della creatività: quella
dell'essere
e del fare artistico.
In
un interno di rigore georgiano che è insieme abitazione e maison
de couture, tutto
come fra gli ingranaggi di un orologio risponde agli impulsi del
sarto di Fitzrovia, sacerdote del gusto che in posa confessionale
interroga compiaciuto delle risposte esatte la principessa di
Braganza: «gold or silver?», «lace or pearl?». Il camice è
bianco come quello di un chirurgo della bellezza circondato da
solerti infermiere per servire la professione come meglio non si
potrebbe: una dedizione assoluta che fiacca e consuma. Per creare
bellezza, e specialmente farlo nel cuore della notte che regala
istanti ispirati. La cura maniacale è anche quella della
realizzazione cinematografica se dietro la macchina da presa c'è il
meticoloso Anderson e, in fronte ad essa, Daniel Day-Lewis senza il
quale il film non si scrive e non si gira.
Il
fatto che una tragedia del creare e della poiesi artistica si plasmi
attorno alla moda è una vertigine che raddoppia il capogiro.
Immergere il soggetto nella biografia di un musicista, di un pittore
o di un letterato avrebbe per giunta comportato tutta una serie di
riferimenti e premure nel destreggiarsi fra cautele e omaggi; non
così col mondo della grande sartoria. Fra l'altro, gli anni della
vicenda si collocano sul limitare di un rivolgimento storico,
poco prima che la moda diventi tale con l'irruzione del
prêt-à-porter. È
l'orrore per il «fucking chic»
che rende furioso Reynolds; chic è
parola che ferisce la sua sensibilità. Sono istanti della
recitazione di Day-Lewis che collocano il grande attore al proscenio
dell'immagine, in un'inquadratura giocata sulla profondità di campo
capace di far conquistare al corpo lo spazio prominente di un
engagement artistico, da condividere in un ideale a due con
Anderson per rivendicare, e con orgoglio, l'autenticità del grande
cinema in faccia a tante visioni prêt-à-porter.
Nella
maison di Fitzroy Square siamo ancora, e per poco dunque, allo
spettacolo della Haute Couture del secondo dopoguerra. Quella
che, fissata la silhouette di base, dotava gli abiti di
strutture asimmetriche ed effetti di sovrapposizione geometrici
attraverso i quali restituire suggerendole le linee costruttive dei
modelli di fine Ottocento.12
Nell'ideazione che compete soltanto a Woodcock, impegnato a tracciare
figurini sul taccuino, ecco allora il mito del creatore di gusto,
ricercatezza, capacità evocativa, perfezione artigianale, lusso,
esclusività, eleganza.
La
moda, scrive Jean Baudrillard, «ha il carattere favoloso del più
bello del bello: è affascinante». E continua:
La
seduzione che essa esercita è indipendente da ogni giudizio di
valore. Oltrepassa la forma estetica nella forma estatica della
metamorfosi incondizionata. Forma immorale, mentre la forma estetica
implica sempre la distinzione morale del bello e del brutto. Se c'è
un segreto della moda, al di là dei piaceri propri dell'arte e del
gusto, è questa immoralità, questa sovranità dei mezzi effimeri,
questa passione fragile e totale che esclude ogni sentimento, questa
metamorfosi arbitraria, superficiale e regolata che esclude ogni
desiderio (a meno che non sia questo il desiderio).13
Non
esiste, insomma, luogo della forma più vorticoso della moda. Il
punto esatto perché franante in cui precipitare una tragedia del
creare: anche in questa scelta sta davvero un colpo di autentico
genio. Vestire è l'estasi del bello. Forma pura di un'estetica che
gira su sé stessa laddove è pronta a lacerarsi come la trina di un
merletto, a insozzarsi come un orlo fa col lucido da scarpe, e a
cedersi dietro pagamento a chi non sa apprezzarla affatto. Il momento
in cui sotto i nostri sguardi Alma, che ha appena confessato di
amarlo, merita da Reynolds il primo bacio scorre sullo schermo quando
egli la ringrazia per aver recuperato sotto il corpaccione di Barbara
Rose l'abito confezionato con la propria maestria.
Ironico
per tocchi di raffinata strategia drammatica Anderson lo è anche
nell'onomastica: Reynolds - very britsh - è Woodcock per
sdrammatizzarsi. E c'è Alma, forma poetica del sostantivo latino
anĭma, parte che
avvelena e lenisce perché sostanzia la natura femminile che nel
cervello presiede alla fantasia, alla creatività. Per impossibile
pacificazione di vita e genio chi maneggia forme e pensieri non può
fare a meno di scendere a patti con essa in feconda ed inesausta
tensione, al tempo stesso distruttrice e rigenerante.
Qualunque
attributo metafisico pare davvero sottrarsi all'alma che
percuote e rasserena Reynolds Woodcock, e sin nelle proprie viscere;
non a discrezione, ma secondo le esigenze della missione creatrice
che a lui il destino ha affidato. Torna alla mente un passo del
capolavoro di Musil che, sottratta all'anima ogni caratteristica
incorporea, abbandona l'uomo «funambolo» all'oscura sensazione di
essere soltanto, non volendolo affatto, che una cosa a metà:
C'è
qualche difetto d'equilibrio, e l'uomo si sposta in avanti per non
barcollare, come un funambolo. E poiché procede negli anni e la vita
vissuta rimane alle sue spalle, ciò che ha già vissuto e ciò che
ha ancora da vivere formano un muro, e il suo cammino finisce per
esser simile a quello di un tarlo nel legno, che può contorcersi a
suo piacere e anche invertire la marcia, ma lascia dietro a sé
sempre lo spazio vuoto. E da questa terribile sensazione di uno
spazio cieco, tagliato fuori, al di là dello spazio colmo, da questa
metà che seguita a mancare quando tutto è già un intero, si
discerne finalmente ciò che si chiama anima.14
Eppure
per Woodcock, per l'artista, il creatore - per colui che legge e
condiziona il reale coi segni del bello e del sapere - quella «metà
che seguita a mancare quando tutto è già un intero»
è soprattutto anima che tormenta e placa, intossica e lenisce; è
quella parte a completamento del sé che ogni ego
disdegnerebbe se già non soffrisse a pretenderla per darsi ragione
di un'esistenza in cui altrimenti inappagata resta la domanda di
senso.
Alma,
anima giovane, intraprende un percorso di segno progressivo, perché
muove da un rapporto genuino con ciò che la circonda; Woodcock pare
indovinare in lei proprio quel nesso immediato col mondo. E Alma
cresce sino a meritare cura ed eredità delle creazioni sartoriali,
come testimoniano le battute con le quali si congeda dallo
spettatore, mentre scorrono ancora le immagini del colorato capodanno
nel Devonshire:
-
I am older and I see thinks differently, and I finally understand
you. And I take care of your dresses. Keeping
them from dust and ghosts and time.
Per
Reynolds, invece, l'itinerario è di adattamento, vera sottomissione
ad una legge irrefutabile che si onora meglio se ad essa si risponde
con complice sorriso, abbandonando il viso fra mani premurose.
Fatto
straordinario non è che Phantom Thread
ponga al centro la figura di un artista che saggia della bellezza il
versante fugace, effimero. Ma è la constatazione che la vicenda sia
raccolta da una figura femminile temprata da virtù metaforiche che
le consentono di penetrare sin nelle viscere dell'artista-creatore,
piegandolo ad un rapporto di sudditanza rassicurante come una carezza
e umiliante quanto una bacinella in cui sputare fra conati di vomito
le ragioni della fedeltà a se stessi. Perché un artista non mette a
nudo la propria anima per farsi creatore. Vero, invece, è che
confligge con essa in un'intimità che scontra fragilità e vigore,
nerbo e miseria. Firmato un patto feroce con se stesso, colui che
plasma forme e pensiero, riceve in cambio momenti di sosta per sedare
quelli tormentosi, per orchestrare quelli profittevoli e quelli che
nell'arrendevolezza, nella fiacca, lasciano cuocere a fuoco lento. E
tutti quegli istanti sembra stabilirli il governo di una fida
tutrice.
Phantom
Thread, filo nascosto fra le
grinze di un'anima, è dramma dell'impossibilità e del
dispendio, tragedia dell'estetica che procede morbida e implacabile
tra raso e velluto, soffice come il sound di Oscar Peterson e
satura di veleni come le corde sfregate nella dolente trenodia, quasi
una sarabande bachiana, uscita dalla penna di Jonny Greenwood:
Phantom Thread III.15
A ricordarci che il momento dell'espressione, come pure quello
del genio, sta nella perdita di sé e in una ferita che non si
rimargina. Perché nell'artista dibatte una volontà annientatrice
quanto vivificante è la sorgente che genera frutti operosi. Inutile
sottrarvisi per provare magari ad estirpare il dolore vissuto, se non
accettandolo attraverso un percorso morale tutt'uno con le proprie
facoltà inventrici; un itinerario che si attraversa perlopiù in
senso opposto alle norme e alle consuetudini in vigore per gli altri.
E forse, prima d'ora, nessuna opera cinematografica era scesa così
in profondità a sondare il precipizio in cui dimora l’essenza
stessa di chi crea bellezza, arte.
Nelle
corde di chi maneggia i ferri della creatività artistica l'assillo
può farsi pressante sino all'autolesionismo. Lo si prepara in
casseruola annegando nel condimento una manciata di funghi venefici
che come in una fiaba nera rosolano profumando una rassicurante
cucina di campagna. Umiliante
e desiderata sottomissione alla quale non resta che continuare a
cedere:
-
I want you flat on your back, helpless, tender, open, with only me to
help. And than I want you strong again.
You’re not going to die, but you're not going to. You just need
settle down.
-
Kiss me my girl, before I'm sick.
Per
un andersoniano corpo a corpo il ring
è allestito ora attorno a una frittata che permette di far agire
sullo schermo gli sfidanti di un silenzioso masochismo domestico,
drogato da ripicche e nevrastenie e del tutto immerso nell'atmosfera
visionaria e complice di un rito antico. Sono sequenze che segnano lo
scarto, il distacco più marcato del film; una torsione articolare
che agisce sul registro ben più che sulla linearità del racconto.16
Ma
Phantom Thread è assai più che un geometrico teorema
sull'estetica e i suoi tormenti, perché qui palpita la vita materica
di elementi che passo passo costruiscono tempi ed ambienti lasciando
misurare tutti i gradi di un'armonia sensitiva calibrata al
millimetro, anche laddove le è chiesto di farsi soffocante,
dispotica.
Per
realizzare un abito di grande sartoria si piegano, si costringono,
tessuti pregiati a guadagnare forme nuove che cercano bellezza
restituendo all'occhio integra la delizia del tatto. Mòrbido (e
anche mòrvido) vale come malato, infermiccio (lat. mòrbidus, in
Lucrezio; da mòrbus, che a sua volta trae dalla stessa radice di
mòrs); un termine associato proprio alla mollezza che fiacca i
muscoli corrotti dalla malattia.
All'abito
da sposa della principessa Mona Braganza, salvato da un disastro, è
conferito statuto simbolico col primo piano dell'inquadratura
laddove, nel lattiginoso mattino che bagna la Woodcock House,
assistiamo sul fondo campo all'imbarazzata e surreale proposta
matrimoniale scambiata fra vittima e avvelenatrice. E qui, nel
soundtrack, Catch Hold già sovrappone alle trasognate
armonie della tastiera del pianoforte gli armonici degli archi che
allestiscono suoni dritti, quasi salutassero un'apparizione
spettrale. Quello del film di Anderson è essenzialmente un
contaminare levigato e duttile, come a trovarsi tra le spire di un
pitone che stritola la preda quasi impercettibilmente, softly-softly.
Chissà
se è ricercato tocco d'ironia musicale, prospettica, anche la scelta
di far affacciare, fra la versione di Day
Dream al
piano di Billy Strayhorn e il sonoro del
ricevimento natalizio (pettegolezzi, gelosie e dispetti al
backgammon),
la più
innamorata e febbricitante frase musicale dell'intero romanticismo
sinfonico, incarnazione sul pentagramma dell'assillo artistico:
quella idée fixe
che come un virus contamina ognuno dei cinque épisode
di cui è composta la Symphonie
fantastique
di Hector Berlioz.17
All'amore
e a se stessi non si sfugge. E la promessa
di eternità, destino agognato d'ogni cuore innamorato e d'ogni
creazione che vorrebbe durare, si assapora in Phantom
Thread nell'intimità ferocemente
irrisoria di un'ispezione otorinolaringoiatrica; quella che sopporta
Reynolds scambiando bacetti e sguardi d'intesa ad Alma che nel voice
over ci
rassicura:
-
If he didn't wake up from this, if he wasn't here tomorrow, no
matter. For I know he'd be waiting for me in
the afterlife. Or some safe, celestial place. In this life and the
next and the next one after. And for whatever
there is on the road that follows from here, it would only require my
patience to get to him again.
You see, to be in love with him makes life no great mystery.
Non
poi gran mistero perché necessità naturale di chi confida nella
bellezza e la protegge è pretenderla intatta in un altrove
temporale. Oltre la morte, nel durare che non muore, laddove sta il
luogo eterno dell'ingegno, della dote e dei talenti. Magari
cominciando proprio dove Alma ha promesso: prendendosi cura delle
fragili creazioni sartoriali per sottrarle alle ingiurie del tempo.
Quando
House of Woodcock chiude in cerchio l'itinerario musicale del
film mentre scorrono le rassicuranti immagini di un bucolico
pomeriggio londinese a spasso con la carrozzina di un neonato,18
le ultime battute di Alma sono rivolte al marito che tiene il proprio
volto poggiato sulla mano di lei, al tepore del camino nella grande
casa di campagna. Un sorriso compiaciuto e uno sguardo alla finestra
sono la risposta a Reynolds che l'ha appena avvisata: «I'm getting
hungry». Fame insaziabile e fatale di chi tributa sacrifici al
bello.
1
«Reynolds has made my dreams come true. And I have given him he
desires most in return.»
«And
what's that?»
«Every
piece of me.»
2Cfr.
Masterclass de cinéma – Paul Thomas Anderson (Phantom Thread)
– ARTE Cinema. Rencontre à
la Cinématheque française: youtu.be/4i91twKezAc
3Con
la sfilata d'abiti il brano musicale abbraccia insieme il dettaglio
del merletto fiammingo, il nome della protagonista cucito fra le
pieghe di un abito, il servizio fotografico e l'inaccessibile stanza
da letto di Woodcock nella quale soltanto Cyril è ammessa a portare
il tè. Si tratta del
Trio per pianoforte, violino e violoncello n. 2 in Mi bemolle
maggiore, op. 100, D 929 di Franz Schubert, pubblicato a Lipsia nel
1828. Recensendo la pagina
nel 1836 Robert Schumann scrisse che l'Allegro
«vibra di un furore represso e di un'appassionata
nostalgia». Al celebre secondo movimento della composizione,
Andante con moto, sono tributati memorabili omaggi in Barry
Lyndon e in La pianiste.
4
«He's a very demanding man, isn't he?» «Yes. Maybe he's the
most demanding man...»
5Dopo
House of Woodcock spetta a My Foolish Heart,
con l'arrivo in automobile
della contessa Henrietta Harding accompagnata da Peter Martin,
mantenere intatti velluto sonoro ed atmosfera fascinosa,
insieme richiamando
la costruzione delle sequenze precedenti: prima l'inquadratura che
torna all'esterno dell'abitazione per seguire l'arrivo dei clienti e
poi nuovamente all'interno della house
per la prova dell'abito. L'ascolto termina soltanto quando la mdp
segue Woodcock che raggiunge Cyril al ristorante.
6Dedicata
alla piccola Dolly Bardac, la Berceuse fu
composta da Gabriel Fauré in occasione del primo compleanno (20
giugno 1893) della figlia di Emma Moyse, sposata al banchiere
Sigismond Bardac e a quel tempo amante del compositore; sarà la
futura seconda moglie di Debussy. Il brano, un Allegretto moderato
(Mi maggiore), figura come primo dei Six pièces pour piano à
quatre mains della Suite
Dolly, op. 56 (1894).
7Nella
colonna sonora si ascolta Sandalwood II mentre,
durante le prese di misura a seguire (Cyril è accomodata in
poltrona e prende nota delle cifre), ogni contributo musicale tace
nuovamente.
8
«I
feel like I've been looking for you for a long time.»
«Well,
you found me. Whatever you're doing, please do it carefully.»
9
Claude Debussy, Quartetto in Sol minore, opus 10, L 91. Il
secondo movimento, scritto nella forma
tripartita di Scherzo, è
Assez vif et bien rythmé (Fa diesis maggiore).
10Si
tratta là di Phantom Thread II
(pianoforte e violino), eseguita nel film da organico
differente.
11Il
cimbalom o cymbalom (in Italia denominato anche
cembalo ungherese) è strumento cordofono (da 30 a 40 ordini di
corde metalliche) caratteristico delle orchestre tzigane. Possiede
cassa di risonanza trapezoidale e viene percosso da due bacchette di
legno leggermente arcuate e ricoperte all'estremità da cuoio. La
viola d'amore (anche viola all'inglese o viole d'amour)
è strumento ad arco d'età barocca, ibrido fra la viola da gamba e
la viola. Possiede numero variabile di corde, alcune sottese alla
tastiera per vibrare simpaticamente conferendo sonorità chiara ed
amabile.
12Oltre
a quelli direttamente ispirati dal nome mitico di Cristóbal
Balenciaga, i riferimenti stilistici di Anderson sono quelli di
Norman Hartnell, Hardy Amies, Michael Sherard. Cfr. Masterclass
de cinéma, cit.
13Jean
Baudrillard, Le strategie fatali, SE, Milano, 2007, p.
12.
14Robert
Musil, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 2014, vol. I,
p. 206.
15Al
tema è conferita funzione connotativa antitetica rispetto ad House
of Woodcock. E si ascolta in quattro versioni di cui tre sono
impiegate nel film; la seconda, si è detto, con organico differente
rispetto all'album, che offre all'ascolto anche quella per violino
solo (Daniel Pioro). Nonesuch Records, USA, 2018.
16Si
pensi all'Epilogo (1927) di There Will Be Blood che in una
pista da bowling sulla quale consumare l'omicidio porta sullo
schermo il formidabile a due fra Plainview e la propria nemesi, Eli.
E pure a The Master che a
partire dalla telefonata ricevuta da Freddie direttamente al proprio
posto, nella sala di un cinema, lascia levitare la narrazione verso
la dimensione onirica per l'ultimo incontro con Lancaster.
17Symphonie
fantastique: Épisodes de la vie d'un artiste,
opus 14 (1830). Antesignana della musica a programma e frutto maturo
al culmine di un lungo periodo d'eccitazione nervosa del musicista
(«douleur
morale ou physique, car je ne sais faire la distinction»,
6 maggio 1831) conquistato al tempo stesso dal primo ascolto
dell'Eroica
beethoveniana, dalle grazie e dal talento di Harriet Smithson, sua
futura moglie, applaudita a Parigi nel ruolo di Ofelia.
Metamorfosando in note musicali la propria infatuazione per
l'attrice irlandese, Berlioz offre con l'idée
fixe l'aspetto forse più
rilevante del lavoro sinfonico, sottoposto come l'immagine della
donna a trasformazioni deformanti che conducono sino alla violenza
espressiva di un sabba stregonesco. Come in una confessione
autobiografica e sulla scorta di Chateaubriand, Hugo, Hoffmann,
Musset e De Quincey, vita e letteratura si fondono nella pagina
berlioziana, capace di racchiudere un mondo nuovo e visionario nel
solco di una cornice tradizionale. L'estratto che si ascolta nel
film proviene dal secondo episodio, Un
bal: Valse,
nel quale all'artista, condotto ad una festa
danzante, sempre resta presente l'amata “idea fissa”. Al
capolavoro sinfonico è dedicata anche una monografia in italiano:
Paolo
Russo, Berlioz:
Sinfonia fantastica. Una guida,
Carocci, Milano, 2008.
18
Non manca nel riferimento agli amanti della coppia («our
lovers»), proprio sul
romantico congedo dalla
storia, una maliziosa
stoccata alla natura transitoria della fedeltà coniugale:
«Sometimes I jump ahead in
our life together. And
I see a time near the end. I can predicte the future and everythink
has settled. And
all our lovers and
children and friends come back and are welcome...»
Nessun commento:
Posta un commento