Quanto emozionano questi dogi che hanno più di cent'anni!
Stracciari
è Foscari oppresso da un dolore sordo ed incurabile; trovata la via
dell'espressione magniloquente, certo, quella che si conviene al capo di
Stato. Eppure, al tempo stesso, il suo è un tormento percosso da
autentici spasimi del cuore. Ascoltate quando apre "come a prim'anni in
sEno" per tornare poi subito a chiudere il suono ("fossi tu") per
auspicare un cuore "freddo almeno". È questa, sapientemente preparata,
l'epitome di una sconfitta inappellabile alla quale resta un solo
pungente rimpianto: non poter ancora cessare di soffrirsi. Acquista così
pieno senso drammatico la sezione cantabile che segue ("Ma cor di padre
sei") fraseggiata con ampleur e animata tanto da dinamiche sorvegliate
per merito di un'amministrazione suprema del mezzo quanto da un legato
che, proprio grazie a questo ascolto, potrebbe considerarsi fra i
paradigmi del termine.
Per finire, ecco il grande tour de force
dell'atto terzo. Qui Amato possiede intera la caratura del baritono
aulico che si esprime caldo e trepidante attraverso accenti severi:
quelli impiegati per tratteggiare tanto il doge quanto il padre ("A me
padre un figliolo innocente"). E giustamente, perché è il Consiglio ad
averlo strappato all'amore filiale così come ora pretende di fare con un
"serto" che chiama - quello sì - la parola di svolta, "onore",
consegnando l'apostrofe di Foscari alla temperatura di un nuovo clima.
Adesso l'afflizione malinconica del protagonista, raggiunta attraverso
il velluto e la morbidezza del canto, guadagna altre inflessioni di
nobile pateticità; anni luce da qualunque sbraco veristico e sempre
sorprendente quanto a squillo.
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