«Quelque chose ne va pas, mademoiselle? Mademoiselle? Mademoiselle...?»
«Comment ça s'appelle d'un côté l'innocent le coupable de l'autre?»
«Je ne sais pas, mademoiselle»
«Cherce-le, imbecille!»
«Je ne sais pas, mademoiselle»
«Mais si! Quand tout le monde a tout gâché et que tout est perdu, mais que le jour se lève et que l’air quand même se respire?»
Prénom Carmen (Jean-Luc Godard, 1983); scénario adaptation di Anne-Marie Miéville
Poche righe sulla Carmen fiorentina in cui la protagonista uccide José (ma la pistola non spara; regia di Leo Muscato), pensando che ad un gigante come Bizet costò non poca fatica il portare alla perfezione la progressione drammatica del finale atto quarto. Si tratta, infatti, di un climax infallibile in cui tutto torna a cominciare dalle frenetiche figurazioni degli archi sul timpano quando Carmen (già avendola pronosticata nella scena delle carte) afferma di sapere che riceverà la morte per mano di José. Effetto potentissimo è la ripresa del ritornello dei couplets di Escamillo: sublime gesto d’ironia tragica (tragica, appunto) che corona la vittoria dell’eroina che ha accettato con fierezza il proprio destino. A suggello, ecco il tema cromatico discendente (la scala andalusa...) associato alla travolgente influenza di Carmen sul brigadiere.
Alla prima di una Turandot diretta da Gergiev alla Scala si era provato così poco che il tenore batté malissimo i tre colpi del gong perché lo strumento faticava a tornare in posizione: e giù risate dal pubblico. Eppure siamo qui a scriverne; chissà se succederà tra qualche anno pure a questa Carmen fiorentina.
Il punto di partenza (e di arrivo) è sempre la musica nel suo rapporto col dramma; per la natura ambigua dell'omicidio (quale dei due amanti uccide l'altro con la pistola?) si rivedano le sequenze finali del film di Godard.
Carmen è un mito anche e soprattutto grazie a Bizet, ma è un mito che travalica l’opera del compositore. Farlo proprio per rileggerlo è cosa benemerita; non altrettanto, invece, tutto ciò che stacca la venerazione dal parassitismo. C’è pure distanza (anche di soldi in tasca) fra lo scrivere un testo ispirato a Carmen e proporlo in prosa (o magari per nuova musica?) rispetto al farsi scritturare da un teatro lirico per prendere i fischi e un cachet fatto per dimenticarli. Nel primo caso il mito si arricchisce, nel secondo - nonostante tutto - resta quello che è: ed è già moltissimo.
Alla Scala trattarono malissimo la Dante che allestì una Carmen sudata, nietzschiana, orientale; a me piacque molto. Con un finale, quello sì, che aderendo alla musica consegnava la protagonista alla ritualità funebre, sacra.
Lascerei, invece, le considerazioni intorno all'arte in rapporto alla violenza sulle donne (così come la faccenda dei nomi maschili/femminili) al sottobosco culturale dei Nardella e delle Boldrini.
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