Qualche cosa sulle ultime ventiquattr'ore.
La conversazione di
D’Ormesson si legge con quel piacere che non fa star fermi sulla
poltrona. Sono frasi autentiche di Napoleone che il grande scrittore
anima nel dialogo insieme a Cambacérès con vivo istinto della parola
teatrale; un gioiello di acume e leggerezza. Le attenzioni del primo
console che sta per proclamarsi imperatore vanno al dominio di un mondo
mai abbastanza vasto per la propria ambizione così come allo scialle armeno
(«d’un goût affreux»!) oggetto di contesa per la nouvelle noblesse dei
Bonaparte. Come fu a Carqueiranne qualche anno fa, speriamo venga in
mente pure ad una compagnia italiana d’inscenare il testo.
Sacra è
la Conversazione del Tiziano in prestito a Palazzo Marino, dove non si
possono staccare gli occhi dalle macchie cangianti della luce
crepuscolare accesa di tepore e quiete riflessiva attorno alla Vergine.
Prodigi che si cercano sullo schermo quando il colore è affidato ai
pennelli di Storaro. Il cinema di Allen è forse il più identitario fra
quelli dei pochissimi grandi vecchi in attività. L'impressione è di
trovarsi difronte a sempre nuova variazione di un tema fatto di motivi
differenti che gravitano attorno allo stesso polo; non senza orgogliosi
riferimenti bibliografici (qui Ernest Jones). Ben oltre il frustro
meccanismo metateatrale (il bagnino drammaturgo racconta e fa la storia)
sono i personaggi ad essere agiti dal cinema, proposti come paradigmi
filmici, proiezioni su cellulosa di desideri e aspirazioni, tutt'uno con
la vita e il grande schermo; dunque Storaro con retroilluminazioni e
virate al seppia, al verde. La
ruota delle meraviglie (quella di Coney Island come il circo di Ombre e nebbia) è cinema di
scrittura ma assai più di attori: qui l'omaggio è alla Winslet, per
nulla seconda a Jasmine (Blanchett) di qualche film fa. Il congedo è
amaro al punto giusto perché ai nostri tempi l'autoillusione genera
mostri.
Antonini alla Scala per Mozart vuol dire applaudire ancora
un direttore capace di trovare la quadra fra nitidezza dei profili
melodici e amabilità del suono, ragion pratica negli accompagnamenti e
senso dell'insieme: una lettura della K427 alla ricerca d'intima
tensione, emotiva e musicale nel cuore del capolavoro (il rigore severo
del Qui tollis benissimo cantato dal Coro). Sono questi gli ascolti capaci di tener viva
l'attenzione con ingredienti sapidi, pur in assenza di una componente
basilare: il canto della coppia di soprani è, infatti, davvero impari al
compito. Prima c'è la Rae, con il Mottetto, quale prototipo della
cantante presunta “stilista” che passa dallo studio di registrazione
alla sala per rivelare la natura di un canto fatto di suoni e suonini
flautati, ridicolmente ingrossati quando trovano la nota “di forza”
laddove altrove sono direttamente emessi indietro. Alla sua
prestazione si è poi aggiunto il malcanto della Invernizzi con
un'organizzazione vocale ripartita nel campionario di suoni spoggiati,
tubati e fissi.
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