Les sauteurs di Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibé (Paesi Bassi/Danimarca, 2016, 82')
Al di là del limes
di Francesco Gala
L'Europa
è scomparsa dietro all'occhio di una camera di sicurezza che in un
bianco e nero surreale ed implacabile perlustra lo spazio
circostante. Al centro dell'immagine un mirino; presto dà la caccia
a punti bianchi che muovono nel fitto della boscaglia. Il dispositivo
che altrove permette di scegliere e di comporre l'inquadratura sembra
qui strumento di punta da arma da fuoco. Lo accompagna, nel sonoro,
un brusio grave e minaccioso, impersonale come quello prodotto da un
generatore elettrico. È
notte e les
sauteurs,
accovacciati sotto alberi di fico d'India,
sono
pronti a tentare l'ennesimo assalto alla barriera.
Nella
ormai nutrita filmografia attorno alle migrazioni di questo inizio
millennio - nella quale il cinema italiano ha giocato un ruolo
primario, da De Seta a Rosi passando per Crialese - questo
documentario prodotto in Olanda e Danimarca occupa un posto
particolare perché testimonianza condotta, sin dalle proprie
fondamenta, in maniera decisiva, radicale. La questione centrale è,
infatti, quella relativa al punto
di vista
e, quando, come in questi casi, il soggetto concerne il limite, la
frontiera, bisogna riconoscere che la posizione nella quale l'occhio
e quindi la macchina da presa si trovano per guardare assume un
carattere assolutamente determinante.
I
documentaristi Siebert e Wagner hanno donato, così, una videocamera
al giovane maliano Abou che da quindici mesi tenta di valicare il
confine europeo rappresentato da Melilla, la città autonoma spagnola
su suolo marocchino: «il
nostro grande amore, l'Europa in terra d'Africa», salutata all'alba
dai migranti, in una dolce sequenza del film, con i versi di una
celebre canzone della Houston.
In
un'attesa che sembra non poter aver fine, Abou vive, filma ed è
filmato sulla montagna Gurugu. «La
famosa, la santa. La divina. La speranza o la disperazione. La vita
così come la morte»,
sono
le parole con le quali il giovane abbraccia il luogo. «Un
nuovo mondo».
La montagna della paura e dagli atti vandalici compiuti dalla polizia
marocchina, ma anche quella del conforto e della compagnia, magari
portata dai cani accolti come «fratelli e sorelle».
Il
lungo assedio alla frontiera ha assunto carattere di normalità, così
come ha fatto con le rigide regole e le gerarchie in vigore fra i
suoi abitanti. Intanto, aspettando e preparandosi agli assalti, si
commercia, si ascoltano canzoni, si gioca a pallone, si desidera
l'amore, si sogna intensamente, si canta: «Ognuno
va via per un luogo lontano da qui. / Questa terra lontana è
chiamata America / Ognuno va via per un luogo lontano da qui. / E
questa terra si chiama Europa. / Ognuno ha il proprio destino e se
non hai mai sofferto / Non sai niente della vita. / Ognuno ha il
proprio destino e se vuoi conoscere la sofferenza / Devi lasciare la
tua casa. / Ognuno vuole aiutare le proprie famiglie. / Ognuno vuole
diventare un africano in Europa.»
E,
ad
ogni nuova apparizione delle immagini in bianco e nero registrate
dalla camera di sicurezza alla frontiera, la
nostra scomparsa dallo schermo - quella di noi europei in un film
interamente africano - torna ad essere presenza ingombrante che
chiama ad attenta riflessione.
Dapprima
timida ed impacciata (addirittura pudica rispetto a certe realtà
sulle quali posa il proprio sguardo), la videocamera di Abou si fa
poi sempre più scaltra e selettiva. Il punto di vista sul contesto
muta attraversando la lente dell'obiettivo che lo riflette; e il
piacere di creare immagini porta alla scoperta di una bellezza
inaspettata che acquista significato personale pronto per essere
consegnato al prossimo, a chi guarda. «Sento
che esisto quando filmo», confessa Abou.
Ora
le immagini si fanno messaggio, tramite di pensieri, istanti,
emozioni. Ed è così che la materia aderisce, con rinnovata
coscienza, al proprio trattamento: l'orizzonte desiderato è uno zoom
come
il
futuro che si guarda tutti i giorni in fronte a sé ma che non si
riesce a raggiungere se non stringendo il dettaglio dell'immagine; la
corsa nella boscaglia è una camera a spalla che cattura porzioni di
corpi, piante, cielo; e l'intervista in stile televisivo è un primo
piano stretto su sorrisi o lacrime.
Una
confessione del protagonista/regista filtra fra le immagini con
parole che bruciano lentamente come i roghi sulla montagna
dell'attesa: «Per
decenni il mio paese è stato sfruttato. E ora che voglio venire in
Europa me lo impediscono? No, no, no. Così non va. Ho il diritto di
raggiungere l'Europa. Non potete prenderci tutto e poi escluderci.
Certo, sappiamo che il paradiso non comincia dietro alla barriera.
Abbiamo visto alla TV come l'Europa tratta i migranti. Mio fratello
mi ha telefonato e ha detto “c'è la crisi in Spagna”. Ma quando
sono sulla montagna e guardo la barriera so che saltare nuovamente
sarebbe molto doloroso e allora devo credere che dall'altra parte
della barriera si trovi l'El Dorado. E a coloro che mi attendono alla
barriera conviene che sia proprio così.»
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