Time present and time past
Are both perhaps present in time future
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
What might have been is an abstraction
Remaining a perpetual possibility
Only in a world of speculation.
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.
(Thomas S. Eliot, Burnt Norton, I, 1-10)
Anche a distanza di giorni, la visione di Silence non lascia scampo. Si trattengono negli occhi e nella mente immagini capaci di tracciare un itinerario spirituale avvincente sino allo sconcerto, cosa che raramente accade al cinema; riviverne le emozioni anche solo col pensiero è davvero gratificante. È forse il film di Scorsese che - dopo una serie di ricognizioni dal segno diverso - riassume meglio di altri la poetica del regista portandola ad una temperatura anche emotiva forse mai da lui tentata sino ad ora: non è un caso che Scorsese accarezzasse da più di due decenni l'idea di girare un film tratto dal romanzo di Shūsaku Endō.
Tra tanti pregi della sua nuova opera, bisogna sottolineare il lavoro di Dante Ferretti che ha fatto vivere il Giappone del periodo Tokugawa trasmigrando sullo schermo forme e colori della pittura coeva: situazioni capaci di guadagnare una dimensione assoluta e pressocché inedita, dal momento che il film di Masahiro Shinoda (per non parlare del riadattamento di Grilo) è ignoto al grande pubblico.
Arrival di Villeneuve, invece, si legge come in un palindromo che - essendo avanti e indietro - una volta smascherato il proprio meccanismo è capace di offrire allo spettatore una visione nella quale le parti sono strette in relazione reciproca in grado così di confortarlo, suggerendo che nella compresenza interattiva di passato e futuro sia possibile risolvere il presente.
Tutto questo è molto prossimo alla crisi che segue un lutto. La perdita di un essere amato pone in contrazione e sovrapposizione la frazione che stacca lo spazio dal tempo: quella che la nostra percezione, nei momenti di felicità, ci fa credere che esista per davvero. Un lutto, invece, schiaccia la frazione sino ad annullarla e somma i due fattori comprimendoli l'uno sull'altro; non lascia rifugio perché interroga nella maniera più profonda il senso stesso dell'esistenza o la sua ragione assente.
Il dono (o l'arma, in un efficacissimo malinteso) che vengono a portare gli alieni sulla Terra è l'accettazione di una realtà compresente, il disvelamento dei suoi orizzonti: non più lineare ma palindroma, circolare come lo sono spazio e tempo. È il solo modo per accettare, prevedere, prevenire, l'inaccettabile: la malattia e la morte di un figlio con la fuga vigliacca di un marito. Louise alla fine (o all'inizio) accetta: il dono della prevenzione non è capace, infatti, di sopprimere la volontà d'amare.
Ed è anche, o soprattutto, un film sul linguaggio, specie quello che si esprime in una scrittura aliena circolare, imbevuta nell'inchiostro; un lavoro che si iscrive nel più nobile filone fantascentifico, quello che da Tarkovskij e Kubrick conduce a Nolan.
Il linguaggio, certo, a cominciare dall'ipotesi della relatività linguistica (Sapir-Whorf) attorno alla quale si costruisce tanto il racconto di Chiang quanto il film. Veicolo di una vicenda spazio-temporale capace di trasmettere allo spettatore quella dimensione ipnotica, enigmatica, che è caratteristica del cinema di Villeneuve (penso soprattutto ad Enemy). Una sequenza è davvero bellissima: il vissuto della protagonista Louise trova contatto con il vetro sul quale un alieno venuto da chissà dove tenta con lei un approccio mediato dalla parola scritta per cercare una rappresentazione capace di sciogliere i nodi che la avvincono.
Nessun commento:
Posta un commento