Charlie Kaufman è uno sceneggiatore di grandissimo valore e la riuscita dei titoli più belli di Jonze e di Gondry si deve anche al suo genio. Questa è la prima volta che dirige una propria sceneggiatura. Per conto mio, avrei preferito che rimanesse, anche in questa occasione, il formidabile scrittore che è lavorando il proprio testo con un regista capace di tradurre a livello filmico una materia mai così complessa e bisognosa di essere domata, soprattutto per guadagnare la forza delle immagini; quella che ci si porta a casa, impressa nella mente, è la porzione di New York ricostruita in un enorme hangar.
Synecdoche, New York rimane, a mio avviso, un lavoro avviluppato intorno ad un testo davvero troppo verboso. Ma è spiazzante e sincero, fino al fecale; vertiginoso nel gioco di raddoppi dei personaggi in cerca d'autore e, in pari misura, di autori in cerca di personaggi. Il tema è una costante della poetica di Kaufman, mai prima d'ora così radicalmente sviluppato e così memore di Derrida. La crisi straniante e solitaria del protagonista (Caden Cotard/Philip Seymour Hoffman) è infatti immersa nel reale quotidiano per intaccare in profondità il processo simbolico; mettere in scena la realtà naturale per giustificarne l'esistenza, comprenderla e al tempo stesso trascenderla. Echeggia in questo proposito buona parte della filosofia del XX secolo. La posta in gioco è insomma ragguardevole così come esplicite sono le citazioni letterarie: si va da Grotowski a Beckett (“L'ultimo nastro di Krapp”). Ma più di tutto, in tempi di sfrenata autoreferenzialità, è importante il richiamo alla non irrinunciabilità di ogni essere umano, il cui transito sulla Terra è legato con innumerevoli fili ad altre innumerevoli esistenze.
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