Poche impressioni sulla generale di Elektra alla Scala, che non tornerò a vedere.
Senza disturbare i Mammasantissima, ricordo che alla Scala, negli ultimi vent'anni - di fronte alla reggia degli Atridi disegnata dalla Aulenti per la regia di Ronconi - si sono cimentati Sinopoli e Bychkov: il secondo, debitore nell'agogica di quella lettura liricamente sospesa e decadente che fu caratteristica del direttore veneziano (è indelebile il ricordo del duetto tra madre e figlia). Era un'Elektra che faceva discutere – magari anche arrabbiare – ma non certo priva di personalità. Lo stesso non si può affermare nel caso di Salonen, che poco ho apprezzato in un recente concerto della Filarmonica: Musorgskij e Stravinskij lavati con la saponetta e lasciati inerti a stendere, al tepore di un pallido sole. Ma a lui va riconosciuta la dote di provetto orchestratore delle proprie composizioni (un pirotecnico concerto per violino). Niente affatto impeccabile negli equilibri di quella che rimane tra le più complesse strutture ordite da Strauss, Salonen non manca qui solamente di un generico 'senso teatrale': invano, infatti, si cercherebbe nella sua direzione un po' di quella musicalità wienerisch che tanto si ammira in Sawallisch; magari deficitaria sul piano della tensione drammatica, ma compensata da rilievi e preziosità strumentali capaci, in diversi passi, di trascenderla. Il suono qui, infatti, non è niente affatto bello, per nulla duttile e incapace così di flettersi – almeno per qualche tratto – in quella miriade di gesti musicali, dinamiche e colori che non attendono altro se non venir suscitati in una partitura la cui visuelle Klanglichkeit è cifra identificativa: non possono che soffrire così i momenti topici dell'opera, a cominciare dal confronto madre-figlia per finire con le pagine che si vorrebbero eteree quanto Chrysothemis, qui sovrastata da un suono orchestrale ovunque caricato, bolso. Ho rimpianto per tutta la sera un Albrecht o, magari, un Harding. In assenza di fortissime personalità sul palcoscenico, la Herlitzius ha superato la prova con onestà, fatta salva una certa monotonia nel fraseggio, in modo particolare nell'agnizione di Orest (un Pape non proprio a suo agio con i primi acuti): refrattario anche qui il direttore nel restituire almeno un tratto di quella insostenibile tensione drammatica che rivela quanto la scena sia stata composta guardando al modello della Todesverkündigung wagneriana. La Klitämnestra della Meier non è mai riuscita a convincermi e non lo ha fatto neppure questa volta, quando anche il canto non è più quello di un tempo: ma bisogna riconoscere che la sua regina dolente, ben più che ossessionata, si trova al proprio posto in questa produzione di Chéreau. Semplicemente improponibili, invece, gli interpreti dei due ruoli tenorili: Egisto e Un giovane servo. Quest'ultimo capitolo nell'avventura teatrale del grande Chéreau mi è parso poco rappresentativo rispetto agli altri; principalmente perché le eleganti scene di Peduzzi e le luci terse di Bruguière (sul fondo, un abside rinascimentale ombreggiato da una punta di azzurro, come in un Piero della Francesca) poco interagiscono con sensi e significati di una tragedia che il regista rilegge lungo una direttrice non inedita (in ciò nulla di male): quella che distribuisce “die Last des Glückes” - cantato da Elektra nel finale - sulle spalle dell'intero quartetto dei protagonisti: è certo, per Chéreau, il peso gravoso di qualunque coscienza post-metafisica.
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