"12 anni schiavo" ha l'impronta inconfondibile del regista Steve McQueen. Eppure mi ha ricordato il cinema (mai abbastanza celebrato) di Sam Fuller e in modo particolare il suo capolavoro: "L'urlo della battaglia". Là la guerra come sfinimento, oltre il limite della sopportazione fisica e mentale; qui il lungo incubo della schiavitù, logoramento delle carni e degli animi. L'antiretorica è un tratto comune. E neppure per un istante alcuna relazione di natura panteistica, alla Malick, s'instaura tra i personaggi e i luoghi della Lousiana: le inquadrature in campo lungo accentuano, infatti, proprio il loro isolamento. Avrei sacrificato in sala montaggio - ma è la mia allergia a 'fare il punto' - il finale in famiglia (un paio di minuti), congedando lo spettatore con gli occhi increduli del protagonista in un primo piano che è già tutto.
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