Se cercate motivazioni per andare a vedere "American Hustle" forse vi basterà sapere che la sceneggiatura di Eric Warren Singer era inclusa nella classifica 2010 fra le dieci migliori sceneggiature non prodotte. Inizialmente, per dirigere la pellicola, fu considerato Ben Affleck. E il soggetto rimanda effettivamente al suo "Argo"; anche questo film, infatti, tratta le vicende di un'operazione dell'FBI. Oppure vi basterà sapere che sono davvero ottime le prove di tutti gli interpreti, fra i quali un De Niro alle prese con un piccolo ruolo fondamentale nell'economia della trama; così come sono azzeccate (e ben amalgamate) le musiche e curatissimi sia i costumi che la fotografia.
Per il regista David Russell ben più che l'adagio "la gente crede a quello a cui vuole credere" conta la constatazione sincera e disarmante che all'uomo, impegnato nell'arte di sopravvivere, non restano altro "merdosissime alternative", come dichiara Rosalyn, la moglie del protagonista: il camaleontico Christian Bale. E, per giunta - come afferma Bale/Irving - quando ci si accorge di aver commesso troppi errori e si decide di reinventare la propria vita "è meglio farlo assicurandosi di avere i piedi ben piantati a terra". Ma - ed è su questo piano che Russell declina l'eterno conflitto di realtà e finzione - come si fa a tenere i piedi fissi al suolo se la realtà che noi stessi e gli altri costruiscono intorno a noi è così mutevole, prismatica e costantemente sovradimensionata rispetto alle ambizioni di ciascun individuo? E come farlo se - cosa ancor più spiazzante - le intenzioni di tutti i personaggi cambiano al passo con la trama complessa che loro stessi si costruiscono attorno per restarne imbrigliati? Insomma, il mio consiglio è di abbandonarvi al film e di seguire i dialoghi brillanti di una commedia che è tale soprattutto perché il suo interrogativo è sinceramente drammatico. Del resto, qui mentono tutti e spesso anche a se stessi.
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