L'indugiare della macchina da presa, gli spazi del tempo, il respiro medio-lungo sono il male assoluto per il cinema di Luhrmann, il cui retaggio figurativo affonda nella grafica dei video games, nella pubblicità dell'ultimo profumo griffato, nel video clip della più acclamata pop star, autrice della canzone prima in classifica. Quello che produce è godimento tattile, visualizzazione edonistica sospesa tra desiderio e invidia degli oggetti. Lo spettatore avido di immagini ubriache è invitato a prenderne possesso per 144', a buon mercato (10 euro tedeschi); unico scotto da pagare è il peso sul naso degli occhiali 3D. Questo è il quarto tentativo, nella storia del cinema, di espugnare un testo problematico come "The great Gatsby"; ed è quello destinato a fagocitare i precedenti perché non si lascia intimorire dalla fonte.
Il regista domina i tempi teatrali, la sceneggiatura è infallibile quando si tratta di creare la cornice psicanalitica nella quale agisce Nick Carraway e laddove sostituisce l'età del Jazz con la festa postmoderna, riservando al sentimento, col contagocce, istanti efficaci solo perché affidati ad attori capaci di incarnarli: e non è poco. Ma, per carità, con pudore; perché il lino e la seta sono assai più erotici. La solitudine, invece, è un vero e proprio tabù, da lasciar appena intravedere nel finale, neppure rinunciando ad accompagnarla col vento tra le tende (che se la porta via). Da quello che fu il sogno americano a quello che è il sogno globale e virtuale. In attesa del 2029?
Nessun commento:
Posta un commento