"Das Rheingold", ieri sera alla Scala. Della vigilia mitica già proposta nel 2010 si conservano nel cast otto interpreti su quattordici, guadagnando dalla presenza di Ekaterina Gubanova: possiede un mezzo adeguato alla sala e amministrato con cura al centro, al servizio di un personaggio più sprezzante che autoritario (come si conviene alla Fricka del Prologo). Garbato, anche nel gioco scenico, il Loge di Rügamer mentre Kränzle (Alberich) fa eccessivo ricorso al parlato. Da apprezzare invece il legato di Paterson (Fasolt), esibito nella lamentazione per Freia.
I punti deboli della distribuzione sono da individuare, quindi, fra gli dei del Walhall. Ancora per una volta ascoltiamo la voce di legno di Buchwald, che necessiterebbe di una di ferro per armarsi del martello di Donner. E, ancora una volta, la vocina aspra di Freia/Samuil, fibrosa quanto quella di Froh/Vlad. La Larsson, nuovamente, guasta l'apparizione di Erda così ben preparata in buca da Barenboim: una scelta inspiegabile. Nei decenni la lettura del maestro non è mutata, preferendo marcare nel "Rheingold" i prodromi più sofferenti delle giornate a seguire piuttosto che la cifra mitologica caratteristica della vigilia. In questo modo i rilievi cameristici sono destinati ad assumere valenza semantica (e spessore drammatico) in modo particolare in due pagine: la lontananza di Freia dagli dei e la resa di Alberich. Qui, quando gli interpreti sono in grado di raccogliere gli stimoli che arrivano dal direttore, la flessibilità della parola è essenziale e le pagine risultano quelle più riuscite. Questi focus non precludono al maestro la facoltà di restituire con buon effetto anche gli affreschi del Vorspiel e l'alba sulla rocca. Meglio sarebbe stato, invece, calibrare diversamente le posizioni di incudini e martello; ne avrebbe giovato in profondità la sonorità della discesa al Nibelheim, che è rimasta piuttosto neutra. Complice la latitanza del regista (se si eccettuano le metamorfosi di Alberich nello studio televisivo) e qualche stonatura, non mi ha convinto per nulla il problematico finale della scena quarta con l'ingresso degli dei nel Walhall: difettava soprattutto di forza propulsiva (v. trombe e tromboni). Un applauso a scena aperta avrebbe, invece, meritato Michael Volle (Wotan) giunto al fa e poi al mi naturale ("So grüss'ich die Burg, sicher vor Bang'") dopo il tempo estenuato che gli ha servito Barenboim: in partitura è scritto "mässig bewegt" e la voce, precaria proprio al centro, non avrebbe bisogno di indugiare su un tempo tanto lento per meglio dichiararsi tale. Al termine i cinque minuti di applausi - il tempo per una chiamata al proscenio di fronte a molti stranieri - mi sono parsi pochi; segno forse che il pubblico non era particolarmente coinvolto.
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