venerdì 5 novembre 2021

“La Calisto” alla Scala




Con "La Calisto" fu amore al primo ascolto. Anzi, alla prima visione perché la produzione era quella ormai storica di Wernicke/Jacobs alla Monnaie di Bruxelles. Introdussi l'opera per i telespettatori di Classica e feci del capolavoro di Cavalli l’oggetto di alcuni appuntamenti dei Giovedì Musicali e del (defunto?) Corriere Musicale; più di recente ampi cenni per Palinsesto. La voglia di far diventar "mio" questo titolo mi prese sin da subito e non escludo certo che, pur riconoscendone ancora e sempre più la grandezza musicale e letteraria, buona parte di quella primissima suggestione fu sprigionata dall'amore per la città più bella del mondo: Venezia, dotta e gaudente, nella quale tante volte mi sono fantasticato di aver vissuto, chissà, in una vita precedente. Del resto, conservo con maniacale attenzione (manco fosse un incunabolo!) la mia prima guida fotografica della Serenissima, consumata dal dorso alla cerniera a furia di guardare le immagini di Palazzo Ducale e di San Rocco. E che piacere l'immaginarsi nei panni di uno di quei facoltosi mercanti che sedettero al Sant'Apollinare per le prime recite della "Calisto". La peste era passata da vent'anni e da altrettanti la cupola della Salute si profilava all'imbocco del canale. Furono pochi gli spettatori del nuovo titolo, molti meno di quelli che, pur esigui nel numero, accoglie in queste sere la Scala. Impossibile perciò scandalizzarsi se si ricordano la scarsa fama del titolo e le giuste paure che porta con sé la pandemia, qui sì, ancora in atto. I biglietti a Venezia erano a quel tempo molto molto dispendiosi, e troppo oggi lo sono pure a Milano; stigmatizzano la scarsa affluenza, allora, soltanto coloro che si accomodano gratis nei posti invenduti della platea. 

Alcune affinità capaci di scavalcare i secoli, insomma, agevolano il piacere di essere qui stasera, paganti e scampati alla falce della peste (per ora). 

Sono molto curioso di ascoltare la lettura di Rousset e di capire come il gigantismo di McVicar si accordi con le agili strutture di un titolo che tanto deve alla commedia dell'arte. 

Mi siedo, insomma, aspettando due passi fra i molti che sento profondamente miei. Anzitutto il distico per me più sublime nel rigogliosissimo testo poetico di Faustini: sono versi affidati a Endimione. Cavalli veste il primo con preziosità madrigalesche e del secondo fa una rassegnata, consolante epigrafe in musica che echeggia la più romantica e tristaniana delle ferite: «e, stringendo i tuoi lacci in dolci inganni, | fa' che morto in tal guisa io viva gl'anni.»

L'altro passo del cuore è per me - forse meno sorprendentemente - il duo dell'ascensione al cielo. Quando Cavalli abbracciava Giove e Calisto fra le deliquescenze e le vertigini dell'erotismo sacro, all'assalto del Serafino su Santa Teresa mancavano ancora pochissimi colpi di scalpello. A Roma come a Venezia, con buona pace dei controriformisti, l'estasi mistica era proprio quella che farà dire a Renan: «je connais bien des femmes qui l'ont éprouvée».

Stasera allora, ninfa Calisto, abbandona l’Orsa e metamorfosati qui alla Scala un po’ anche per me.

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