È proprio bello il nuovo film di Frammartino! In rete se ne trovano pochi fotogrammi e come sempre accade non sono quelli più pregnanti. Ma è giusto così perché lo spettacolo è nelle sale.
Nel “Buco” sono preziosi anzitutto i brevi istanti di sequenza in cui un frammento di luce rossastra prodotto da lampade a gas lotta per trattenersi sullo schermo già tutto a nero buio. E dopo, in controcanto, ecco pressoché impercettibile il pulsare della vena sulla mano di un vecchio disteso a letto in muta agonia. Come il bagliore langue nell’abisso di Bifurto così fa il tenue sollevarsi del petto che attesta ancora la sopravvivenza, l’intrepido perdurare della luce negli spazi silenziosi della tenebra, intemerata essenza di cui è fatto questo film che è cinema allo stato purissimo.
La luce crepitante è presupposto stesso dell’essere cinema, certo. Ma c’è di più. Perché il chiarore è conoscenza che sonda caparbiamente il mistero assoluto della sofferenza e della morte; qui Severino ci ricorderebbe che θαῦμα non si traduce con “meraviglia” ma con “angosciato terrore”. L’interrogativo di Frammartino è di nuovo universale, come quelli che percorrono “Le quattro volte” (da quel lungometraggio sono trascorsi più di dieci anni), e sempre lui si trova in quel tratto di Magna Grecia sospesa nel tempo, qui appena turbata dai vagiti di una modernità da schermo tv.
Mi è tornato in mente ieri sera un altro film, diversissimo da questo ma pure tratto da una storia vera: “Sanctum” che vidi in aereo andando in Indonesia per le immersioni subacquee. Non proprio una visione rassicurante anche tenuto conto del fatto che fra i sogni capaci di farmi svegliare di soprassalto c’è quello che in cui sono stretto fra pareti e anfratti troppo angusti per provarmi con tutto il corpo a passare.
Là, nell’avventuroso film di Grierson, la sfida è quella di un’estrema lotta per la vita, dove il fiume sacro «scorre per caverne vietate all’uomo, / a un mare senza sole»; è nientemeno che il Coleridge di “Kubla Khan”. Qui, in Frammartino, c’è l’abisso dell’inconoscibile. Un cinema che non prescrive, insegna.
Per confermarci nelle impressioni favorevoli di chi ha applaudito in sala il regista presente alla proiezione è stato utile il commento liquidatorio di un signore che mi stava seduto dietro, dal forte accento lombardo: tolto il piacere della scalata al Pirellone e dello champagne delle gemelle Kessler «è un documentario sul parco del Pollino». Esternazione rivelatrice del fatto che si possa, guardando questo film, accogliere quali elementi narrativi solo quelli veicolati dalla parola. E sono proprio le verticalità e le paillettes a sopravvivere oggi per bottegai e straccivendoli quale retaggio provinciale di chi non ha mai visto nulla né al cinema né in giro per il mondo.
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