Sequenze
memorabili di un film che è incoercibile ai dettami della Hollywood
classica. Eppure fu possibile soltanto là, in un contesto produttivo di
altissima fattura e di estetiche innamorate delle virtù onirica del
cinema: Peter Ibbetson di Henry Hathaway (1935).
È
un capolavoro al quale torno con una certa regolarità, sempre con
l'emozione della prima volta. L'ho fatto anche ieri sera. La visita alla
pinacoteca è il fortuito diversivo che indirizza il protagonista,
Gogo/Peter, verso il luogo della sua infanzia. La sublime colonna sonora
di Ernst Toch qui ci depista; lo fa con la freschezza irrisoria di una
marcetta affidata ai legni. E la mdp ci porta nella sala della pittura
di paesaggio con movimento da destra a sinistra fino a una marina "de
Turner". Poi corre a destra: Gary Cooper siede pensieroso e guarda il
dipinto. Stacco sul quadro mentre la musica s'intorbida in languori
romantici. «Sì. E vedo il mare infrangersi sulla costa e spumeggiare
contro le rocce.» A questo punto ecco la prima soggettiva del film.
Appartiene al dipinto stesso che guarda due visitatori mentre la musica è
di nuovo la marcetta di prima («Ehi! guarda come assomiglia a
quell'insenatura del nostro paese!»). È questa una nettissima frattura
filmica e semantica, che si compie in un passaggio decisivo della
pellicola. Da dietro, Cooper si alza e muove verso destra mentre la mdp
lo segue; ma la destra è diventata la sinistra di prima, perché
guardiamo ora proprio dalla parte del dipinto. Spalle alla mdp e sguardo
avanti, siamo passati in un batter d'occhio oltre lo specchio: quello
della finzione, della riproduzione artistica, del sogno e delle sue
virtù telepatiche nel dialogo col reale. Da qui tutto cambia ed è
possibile ad Hathaway giocare anche con citazioni e rimandi interni di
rilievo anzitutto figurativo. Se accanto a Turner, infatti, sta appeso
un dipinto di Fragonard, ecco, non manca molto prima che della sua
celebre altalena si materializzi sullo schermo la mimesi filmica in
bianco e nero.
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