Due osservazioni e la conclusione a chi legge:
- veniva alla Scala Montanelli con la moglie; tutti e due secchi secchi, lui altissimo. Devo averli accompagnati al posto qualche volta. Bene non mi ricordo, perché succedeva spesso con tanti e poi io ai giornalisti di fama non ho mai accordato particolare interesse. Mi sembra che venti o venticinque anni fa non fossi il solo, peraltro; a mio nonno conservatore lui piaceva, ma non ricordo alcun invito a rendermelo indispensabile. Del resto, accoglievamo schierati all’ingresso della Scala il presidente della Cina (ben altra suggestione geografica) e quindi, insomma, tutto era in proporzione. Oppure tenevamo sotto braccio la signorina Renata Tebaldi; dunque altre evocazioni.
Oggi è diverso e i giornalisti di primo piano (anche quelli scomparsi, e forse specialmente loro) sono assurti al rango d’imprescindibili intellettuali di riferimento; di loro si parla più che dei politici, ad esempio, e assai più che di molte altre categorie; che sia questo il segno di una carenza di respiro, di orizzonti?
Poi Montanelli andava da Biffi per cena. Se entrandoci capitava vicino ad amici miei, di sinistra quanto me, loro sbuffavano ma non troppo perché lui ormai era contro Berlusconi; argomento diverso dal Berlusca non esistette in Italia per più di dieci anni e, in verità, della dodicenne etiope non interessava niente a nessuno. Dunque Montanelli andava benone (a destra gli diedero addirittura del comunista) perché si trovava a remare dalla parte giusta; paradossi che facevano sorridere lui per primo. Nella Milano del centrodestra gli furono dedicate statua e parco, con poche polemiche annesse. La statua non gli assomiglia affatto in viso, ma certo è una scelta dell’artista. Al contrario, la posizione seduta la rende affabile, informale. La situazione politica consentì tale tributo alla giunta di centrodestra; oggi, prodigi del tempo, quello apparirebbe persino come una concessione ad una “figura scomoda”. Poi, dopo anni, in città venne al potere il centrosinistra e le politiche così come i veri rapporti di forza (a cominciare da quello instaurato coi privati) non cambiarono se non nella percezione iniziale di molti. A riprova del fatto che certe dinamiche mutano soltanto in superficie e neppure poi molto, fu con qualche mal di pancia che, Pisapia regnante, venne iscritto al Famedio (luogo deputato a benemeriti «per opere letterarie, scientifiche, artistiche o per atti insigni o che si siano distinti particolarmente nella storia patria [e] abbiano arrecato alla città particolare lustro o beneficio») il missino Franco Servello che sempre finché visse continuò a richiamarsi nostalgicamente al ventennio della dittatura fascista e fu promotore della manifestazione (12 aprile 1973) vietata dalla Questura nel corso della quale in violenti scontri con le forze dell’ordine i fascisti uccisero con una bomba a mano l’agente di polizia Antonio Marino. Parliamo dello stesso sindaco Pisapia, già ex deputato di Rifondazione Comunista, che al parlamento europeo votò poi per l’equiparazione storica di nazismo e comunismo. Una sostanziale continuità mi pare, invece, legare sì questi e altri fatti ancora. Sono epifanie e ridimensionamenti della percezione temporale per provocare ulteriormente i quali s’invocherebbe - se non andasse sprecata per i soggetti in fabula - la penna di un Proust.
Oggi, per la seconda volta, la statua si trova imbrattata (di rosso, con minore fantasia rispetto alla volta precedente). Verrà pulita e tornerà come prima. Mi pare proprio che, come ha scritto benissimo Andrea Zhok, ci si muova qui nell’ambito angusto di «un imperialismo dei poveri: l’imperialismo dell’ignoranza presente verso ogni passato “scorretto”».
- Quasi coetaneo del giornalista italiano era lo storico ed orientalista Alain Daniélou che, invitato nei primi anni ‘80 in una trasmissione culturale gloriosa della tv francese, si esprimeva intorno ad argomenti sessuali, razziali e più genericamente culturali, antropologici, con una liberalità e una lucidità che oggi scandalizzerebbero tanto da non permettersi di andare in onda. L’estratto non si trova più in rete per questioni di diritti, ma la trasmissione è talmente prestigiosa che, fra i suoi innumerevoli ospiti vanta insieme a Daniélou (insignito delle più alte onorificenze della Repubblica francese) personalità quali Borges, Yourcenar, Eco, Simenon e Lévi-Strauss. Nel suo Śiva e Dioniso - io lo definisco un libro che sta in sella ai continenti per cavalcare i millenni - lo śivaita Daniélou scrive: «La diversità delle specie e delle razze è un aspetto essenziale dell’armonia della creazione. Le restrizioni relative ai matrimoni interraziali permettono di evitare l’imbastardimento delle specie, di conservare a ciascuna di esse la sua nobiltà e la sua bellezza. Il sistema delle caste ha lo scopo di consentire la coesistenza di razze diverse in una stessa società garantendo a ogni gruppo sociale una professione riservata e privilegi distinti. Esso rientra nell’organizzazione sociale dell’antico Śivaismo». Del resto, continua Daniélou - evidentemente additando a futuri censori altri libri da bruciare - «scrive Esiodo che l’evoluzione dell’uomo passa attraverso quattro tappe, che corrispondono alle quattro razze degli Hindu: [...] bianco, rosso, giallo e nero.» Lo storico francese prosegue citando il sistema sociale di Egizi e Cretesi, ritrovando in tutte le tradizioni una suddivisione dell’umanità a seconda delle funzioni e delle capacità loro proprie perché «l’umanità trova l’equilibrio e la felicità solo quando i quattro gruppi umani che sono alla base delle quattro caste sono in armonia». Invece, «è sul piano delle realizzazioni spirituali, del progresso dell’essere umano, dei riti e delle pratiche religiose e magiche, che lo Śivaismo non conosce differenza tra gli uomini. [...] Proprio le differenze tra gli uomini, la loro ineguaglianza, sono la fonte d’ogni progresso, d’ogni civiltà. L’identità nelle attitudini delle varie razze è una finzione. Ciò non significa che, collettivamente, ogni razza non possieda attitudini che le altre non hanno. Accade la stessa cosa per gli individui all’interno di ciascun gruppo. Il vero problema sociale è di dare a ciascuno le maggiori possibilità di svilupparsi secondo le proprie tendenze, le proprie capacità, i propri bisogni. [...] Le teorie cosiddette egualitarie e democratiche del nostro tempo portano inevitabilmente a un livellamento che è una frustrazione, una specie di schiavitù per tutti. La libertà è il diritto d’essere diversi.»
Una vertigine storica e antropologica, insomma. Per dissentire, anche con radicalità, da queste parole è sufficiente dirsi egualitaristi e sinceri democratici, come faccio io. Ma per farne anche oggetto di critica storica è necessario comprendere varietà e contestualità di forme che abbracciano i millenni, e non certo soltanto un paio di secoli rischiarati dalla luce illuministica del nostro Occidente. Sono tutte forme dotate di ragioni e di fattezze mutevoli quanto la natura sconfinata che circoscrive la categoria dell’Umano. Riconoscerle, anche nelle loro resistenze (o scorie) è il primo passo per non condividerle o per rigettarle del tutto. Diversità storiche, antropologiche, culturali sono invece sconosciute a chi getta vernice o abbatte monumenti perché, fra le diverse mancanze, non contempla difronte a un fatto storico o testimoniale (materializzato, ad esempio, in una statua celebrativa) la necessità di dotarsi per intervenire su di esso (fatto storico o testimoniale) di strumenti interpretativi adeguati alla capacità di penetrarne il senso e di leggerlo servendosi di chiavi non inibenti e neppure ottusamente bigotte come quelle impiegate in questi giorni.
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