venerdì 11 maggio 2018
"Francesca da Rimini" alla Scala
Bisogna compiere qualche sforzo per ritrovare nella Francesca da Rimini data ieri sera in replica alla Scala il clima e i tratti che fecondano molteplici il capolavoro di Zandonai, ma solo se si vuol godere di una produzione teatrale che non si limiti alla riproposta del titolo "raro" per guadagnare, invece, dimensione culturale: aggettivo che, però, si dovrebbe prima mondare avendone fatto troppo spesso in musica un pessimo impiego.
Nello spettacolo, si troveranno allora di Francesca suggestioni belliche (e cenni biografici dannunziani) che valgono più della circostanza storica: quando l'opera va in scena per la prima volta a Torino, il Primo conflitto mondiale è cominciato (non ancora per l'Italia) e la partitura, certo, ne avverte preconizzandone assai i clangori. L'apparato scenico con le sue onnipresenti macchine vorrebbe dunque, nell'intenzione del regista Pountney, possedere carica simbolica in grado di scontrarsi per amplificarlo col côté intimo della vicenda, cuore della stessa. Ma il tentativo riesce con buon effetto solo all'atto secondo, perché davvero trascurato altrove per mancanza di un disegno coerente che accompagni lo spettatore sollecitandone l'attenzione rimane il percorso emotivo dei protagonisti in una tragedia dell'ineluttabile che si costruisce sulla scena a tappe forzate. Se il lato estetizzante è richiamato al principio da costumi rinascimentaleggianti (il fatto non sorprende perché per la medievale Francesca è stata l'abitudine), il regista non riesce a cancellare quell'impressione di déjà-revu mal masticato: si va da pleonasmi quali l'omicidio del Giullare, a Samaritana che si trastulla con un pupazzo di unicorno per giungere al finale d'opera che stempera non poco la formidabile carica drammatica impressavi dall'autore.
Questa volta alla Scala si troveranno, poi, di Francesca da Rimini ben sollecitati nella fastosa e sapiente trama orchestrale tanto i colori arroventati della battaglia quanto le tinte preziose del soave crepuscolo, così come quelle del falso antico. Merito dell'orchestra guidata con sicurezza da Luisi, cui competono tanto i ritmi serrati dello scontro alle mura di Rimini quanto le evocazioni trasognate di primo e terzo atto. Si ascolta in sala una compagine dal suono brillante e affermativo, "alla Strauss" dei poemi sinfonici, che riluce in modo memorabile durante il cosiddetto incontro della grata, esposizione la più ampia del tema dell'amore; qui però, infelicemente, una macchina scenica dorata (Paolo a cavallo fra arcieri) percorre il binario trovando ostacolo nella seggiola dell'immancabile tavolino al proscenio. Meno avvincente per varietà ed intima commozione è, invece, la tenuta narrativa offerta dal direttore, che non è parso aderire in maniera convinta non già alle suggestioni e ai virtuosismi offerti dalla partitura quanto piuttosto al racconto dannunziano, altrettanto caro al compositore. Complice una distribuzione in più parti deficitaria, si ha l'impressione che non si sia trovata la quadra per risolvere un titolo che è Giano Bifronte, lavoro di un compositore molto ben aggiornato riguardo alle novità dall'opera in direzione vieppiù sinfonica ma altrettanto orgogliosamente legato ad un modo di intendere il canto capace di preservare il racconto, e cioè la parola, in rapporto col tessuto strumentale dal quale essa trova ragione ed atmosfere; parola che è quella dannunziana come zandonaiano è il colore chiesastico (l'amore senza eros citato nelle lettere del compositore) che costituisce, non superficialmente, il tratto anticheggiante dell'opera.
Ma per rilevare sulla scena questi tratti salienti è necessario avvalersi di una compagnia di canto di provato valore. In un comparto femminile che fa molto soffrire, basti citare la Samaritana della Kolosova (e pure l'interprete di Smaragdi) per riconoscere momenti nei quali il colore orchestrale non trova in scena quel colore del dramma che è anzitutto aderenza all'affetto dei personaggi. La protagonista, la cui presenza dovrebbe contarsi fra le ragioni principali per andare in scena con Francesca da Rimini, non passerà certo alla storia del canto per essere una raffinata dicitrice. Cantante professionale ed attenta a sorvegliare ogni frase così come fa coi limiti e difetti del proprio mezzo, Maria José Siri lo è; pur esibendo oggi una voce parecchio affaticata rispetto agli esordi. L’assenza del registro grave si maschera meglio che altrove in questo ruolo, ma non altrettanto si può affermare riguardo alla saldezza non immacolata di p e pp attorno ai quali si dovrebbe costruire un fraseggio che, nel suo caso, resta limitatissimo.
La costruzione del personaggio è davvero altra cosa, specie se si tratta di un ruolo che il compositore sentì suo al punto tale da lasciare che la propria inventiva surclassasse, e di molto, le facoltà della consorte che doveva esserne prima interprete. Ci sono i dischi, si dirà con ragione. Dal vivo ascoltai la Dessì che, specie in fatto di parola, era davvero ben altra interprete rispetto alla Siri, essendo puntuale su ogni frase importante, dolcissima e tragica al contempo. L'occasione offre a chi legge l'opportunità di andare, o tornare, alla leggendaria interpretazione di Magda Olivero che merita altrove ben altra disamina essendo costruzione stupefacente del personaggio a partire dall’unico dato che si conosca per certo: il pieno possesso dei mezzi tecnici, per cominciare.
Meglio riusciti sono ieri sera i passi più schiettamente veristici affidati agli interpreti maschili: il Malatestino di Ganci e il Gianciotto di Viviani, mentre tra i ruoli minori si è distinto il Ser Toldo di Matteo Desole. Fa eccezione, in difetto, il Paolo di Puente. E dire che la parte è epitome del canto su centro e passaggio, zone estremamente problematiche per un tenore che bras tendus vers la salle cerca invano quell’ampiezza che la voce imprigionata tra bocca e gola non gli consente.
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