domenica 26 marzo 2017

"Die Meistersinger von Nürnberg" alla Scala




La fortuna dei Meistersinger alla Scala divide in due il secolo passato. Se complice l'autorità di Toscanini il capolavoro di Wagner fu rappresentato con notevole frequenza durante la prima parte del '900 (pressappoco di lustro in lustro), dopo il secondo conflitto mondiale, invece, il titolo venne proposto prima con scadenza decennale (Furtwängler, '52, e Böhm, '62) e poi trentennale (Sawallisch, '90) dal momento che quasi uguale lasso di tempo intercorre tra quest'ultima e la prima produzione del nuovo millennio
Si tratta di una considerazione che avrebbe meritato attenta riflessione da parte della dirigenza di un teatro che si vorrebbe impegnato ad offrire, specie ogni qual volta propone un titolo divenuto raro per la scena milanese, quella traccia di senso e di carattere, quel segno distintivo che, almeno nei titoli wagneriani, è impresso dalla direzione d'orchestra. Un maestro che negli anni passati (merito anche di Falstaff) avrebbe forse proposto un'avvincente lettura è Daniel Harding al quale non difettano certo la tecnica, l'istinto e l'intelligenza colta richieste a chi avvicini un lavoro così mirabilmente giocato su differenti livelli espressivi e di significato. Dunque, uscendo dai Meistersinger, non ho potuto fare a meno d'immaginare cosa sarebbe stato in primis il suono dell'orchestra della Scala trattato con quella punta e quella duttile nitidezza di cui ha dato ampie prove il direttore inglese, strumento per una ricognizione che ha lasciato il segno pure nel repertorio tardo romantico per poi clamorosamente sparire dai cartelloni del teatro milanese.
Grazie all'esecuzione di giovedì sera, di apprezzabile e per me inedito, ho portato a casa il Beckmesser di Markus Werba e il Sachs di Michael Volle; quest'ultimo però già lo conoscevo da una produzione del Met, ma un buon ascolto dal vivo è sempre novità
Con felice sorpresa, il Beckmesser di Werba non è affatto l'ennesima incarnazione di quei cantanti che hanno traghettato verso il caricaturale la figura del pedante censore. In scena è elegantissimo, così come lo sono l'incedere e il portamento. Se il mezzo non è torrenziale e un poco lo svantaggia nel conquistare lo spazio della sala, il canto è invece porto con gusto e proprietà, a tutto vantaggio di un interprete impegnato in un'evoluzione drammatica progressiva e quindi credibilissima: quella che trasforma il cantore dell'ufficialità in un uomo che si rende comico per la propria sicumera. È un Beckmesser la cui indole merita, come vuole il regista, destino ben più generoso di quello prescitto da Wagner: non perso furente fra la folla, ma al centro di una riconciliazione nel nome del primato dell'arte.  
Come è facile prevedere, i momenti più riusciti sono stati i duetti con Sachs, restituiti con giusto equilibrio tra il sornione ed il sardonico. Qualcuno potrà forse ritenere che Volle tratteggi un protagonista sin troppo disincantato per titaneggiare dove serve; eppure nei due monologhi lo scavo psicologico è approfondito, essendo un ragionare in musica sfumato nelle dinamiche che assecondano le intenzioni. Certo, è un Sachs lontano da manifestazioni di magniloquenza fine a se stessa ed autorevole, invece, tanto nell'aspetto quanto nella resa vocale; rivela soltanto un po' di stanchezza nel finale di «Wahn! Wahn!».  
Delle altre parti è presto detto essendo la coppia a latere (David e Magdalene) ben più appropriata di quella formata dai protagonisti. Dell'interprete di Eva che porta il cognome del compositore si sono ascoltate poco più che le consonanti, almeno sino all'atto terzo dove ha esibito una voce lirica niente affatto a fuoco sui primi acuti. Quella di Walther è parte insidiosa e se il tenore non ha risolto il passaggio alto non può certo affrontarla: è il caso di Caves, riprovato dal pubblico a scena aperta.
Considerazione diversa spetta al direttore che ha proposto una lettura bidimensionale o, se si vuole, un pendant del Falstaff, altrettanto grossier, da lui diretto l'anno scorso; un fatto che si maschera un poco perché diluito nelle dimensioni della partitura wagneriana. Certo, Gatti dirige con piglio la baruffa che chiude l'atto secondo ed è altisonante nel finale dell'opera. Ma la sua orchestra propone  dinamiche che vanno da mf al ff essendo molto avara delle altre, alla ricerca di un effetto senza causa che riduce complessivamente tanto la duttilità musicale quanto l'elasticità teatrale. Se le atmosfere notturne risultano poco suggestive, soffre ben più la dolce Stimmung della vigilia di San Giovanni. Sono Meistersinger calibrati sul passo rustico di «Jerum, che si vorrebbe restasse soltanto uno fra i molteplici registri musicali dell'opera; una grevità esibita appunto per marcare un momento e non per conformarvi gli altri. Offre un esempio, fra gli altri, il termine del secondo monologo di Sachs che serve da raccordo all'episodio successivo (l'ingresso di Walther): dovrebbe essere in musica la mimesi di un viso che da pensieroso si fa affabile, cordiale: qui invece, dopo la lunga arcata dei violoncelli, il tono non muta affatto. E non si tratta di scelte agogiche: i tempi sono rilassati ma non certo indolenti. Si pensi piuttosto all'assenza di cambi di registro emotivo tra la scena seconda e la terza dell'atto primo, in cui gli scatenati apprendisti si fanno da parte per permettere a Pogner di avanzare scortato da Beckmesser; o all'orazione di Pogner (un Dohmen ancora in buona forma) che sotto la bacchetta di Gatti è subito sostenuta da un tono cattedratico invece che cominciare con l'addolcirsi all'affetto paterno per poi evolvere nel tono; oppure alle anticaglie della Tabulatur che trapuntano in orchestra gli interventi di Magdalene qui livellate da un suono che col direttore risulta perlopiù bolso, incapace di evocare presenze e tutto impegnato invece a riprodursi nel ricolmo e mai nel cameristico. Più cultura del ripieno che del contrappunto, insomma, da parte di una concertazione assai poco dotta che non riesce ad eludere la prevedibilità quando incastona il canto dei solisti nella musica di scena, che è invece così bello sentir respirare insieme al dramma. Già dal preludio all'atto primo il profilo dei motivi è smussato sino ad arrotondarli indistintamente, trattandosi di soggetti fatti decantare invece che impegnati in evoluzione drammatica mediante quel combattimento fra la sfera dei cantori e quella del poeta che è il tratto saliente del brano. Rimane così un affresco generico che forse a qualcuno richiamerà alla mente il preludio di Solti nell'incisione del '76; ma là è davvero tutt'altro universo sonoro, essendo proprio quello dalla cui opulenza il direttore ungherese omaggia il bello restituendo quindi una parte del senso.  
Fra elementi architettonici del gotico di Norimberga sopravvissuti al conflitto mondiale muove con intelligente gioco scenico una popolazione festosa, per miracolo sopravvissuta all'incubo ed ora in scena per testimoniare la resistenza dell'umanità, della bellezza. È certo ben più ricco di riferimenti figurativi lo spettacolo di Herheim proposto a Salisburgo (c'erano forse ragioni di adattabilità al palcoscenico milanese?), eppure i Meistersinger messi in scena da Kupfer lo confermano regista wagneriano di vaglia; ho riguardato di recente il suo Ring di Bayreuth che rimane una pietra miliare





 

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