Una volta, il violinista Franco Fantini che suonò in orchestra per il
concerto della riapertura della Scala dopo la distruzione mi ha
raccontato di essere rimasto quasi sconcertato dal programma: Toscanini
aveva scelto la Sinfonia della Gazza ladra. «Ma come? Una musica
spensierata, da divertimento, per un'occasione tanto solenne,
importante?». Erano gli anni Quaranta e il compositore del Barbiere
restava per un giovane musicista il compositore di musica disimpegnata.
Già in prova, però, Fantini conobbe la grandezza della pagina; in
repertorio, fra le sinfonie rossiniane, Toscanini includeva il Tell e Semiramide.
Il brano più celebre della Gazza ladra diretto dal
Maestrissimo è ancora oggi un ascolto sbalorditivo e si conta fra i
molti dai quali si evince la sua irripetibile personalità.
Si
sarebbe tentati di definirla un'interpretazione compiutamente etica,
aggettivo fuori misura solo qualora non si ricordi che la comédie
larmoyante era il genere in cui la borghesia esprimeva il proprio
compiacimento con notevolissimo grado di autocoscienza e onesto contegno
sentimentale. Siamo nell'anticamera del romanticismo politico,
associato in Francia al liberalismo rivoluzionario e già incarnato dalla
pièce à sauvetage, l'altro modello del libretto semiserio di
Gherardini: il martello della potestà tribunizia promette, infatti, la
sentenza di Ninetta sulle note della cabaletta di Gottardo che presta
materiale dell'opera ad una Sinfonia cominciata con un Maestoso
marziale, staccato da Toscanini con orgogliosissima asciuttezza. Eppure
qui, anche gli episodi rischiaranti della Sinfonia affidati al
chiacchiericcio dei legni sono iscritti dal direttore in una visione
fortemente unitaria, tanto che la turbolenza - inaspettata, inebriante e
beethoveniana come mai altrove col suo rimpallo imitativo e gli
sforzato - acquista, proprio al centro dello spazio che produce, i
tratti di un'autentica catastrofe prima di essere, ma solo all'ultimo,
ricondotta alla calma tramite il corale degli ottoni e poi risolversi in
un nulla di fatto: e cioè nella sezione “spensierata”, che con
Toscanini suona non poco sinistra e che nella ripresa si riaffaccia
occhieggiando quasi temesse di risultare inopportuna.
Emerge,
insomma, qui - al grado massimo - il connotato che stacca lo stile di
Rossini dalla tradizione buffa: il tono forzato che dichiara
nell'eleganza del gioco musicale tutta la propria durezza. È un tono che
- come ci ricorda Antonio Amore nei Brevi cenni critici (1877) - apparenta
la musica di Rossini non allo spirito della Restaurazione, bensì a
quello della Rivoluzione. Si ricorderà, certamente, quale sia la
differenza tra l'atteggiamento conciliante di Rossini e quello critico
di Beethoven davanti al ristabilimento dell'Ancien Régime; eppure, qui,
entrambi sono partecipi di quello spirito del tempo che Toscanini fa
vivere nella propria interpretazione. Si direbbe che il Maestro abbia condotto Rossini - altrimenti così restio - ad immedesimarsi nella
qualità metafisica dell'oggetto, secondo una compiuta visione romantica.
E, per un'associazione di idee che riporta ad un capolavoro della
letteratura universale, l'incisione toscaniniana - col suo marcare
all'estremo la ritmica aggressiva - fa sì che io stabilisca un vincolo
di parentela fra la sua urgenza febbrile guidata da un imperativo morale
e la corsa disperata di Valjean verso il processo ad Arras: La Gazza
ladra debutta nel maggio 1817 e l'episodio immaginato da Hugo risale al
marzo 1823.
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