Superflue le premesse ad un titolo che figura fra i più rappresentati al mondo; eppure, questa volta, due sono necessarie e la seconda legata alla prima.
Al netto di dichiarazioni addirittura liturgiche e devozionali («atto di riparazione», si legge sul sito della Scala), non è difficile intuire che a guidare la scelta di Ur-Butterfly sia un insopprimibile ideale romantico: genio autentico è l'artista che squaderna pronta manu i frutti del propria ispirazione, capace col suo essere tutto di trascendere la somma delle parti. Ciò dovrebbe valere anche per un capolavoro in avvicinamento quale la prima versione di Madama Butterfly, ora ritenuta tale invece - essendo opera di un genio - da meritare il posto in testa al cartellone del primo teatro italiano.
È brutta Ur-Butterfly? Niente affatto: è un lavoro nel quale sono espressi in potenza, ma
anche frustrati senza che nulla di paragonabile sia dato in cambio, alcuni fra i momenti più esaltanti di un capolavoro sublime. Del resto, posta in termini squisitamente formali (bello o meno bello) la questione assume caratteri surreali.
Intorno alla complessità del processo creativo pucciniano così come alle problematiche legate al mondo del teatro d'opera fra '800 e '900 non è il caso qui di argomentare; bisogna ribadire, però, quale distanza intercorra tra la logica ottocentesca del numero (i casi Macbeth '47 e Boccanegra '57, ad esempio) e quella della stringente consequenzialità drammatica ricercata sempre e con estrema determinazione da Puccini. Gli interventi dell'autore après la première, infatti, non sono semplici miglioramenti ma azioni finalizzate a rendere infallibile l'effetto complessivo tramite un equilibrio dei tempi drammatici e musicali che risulta indispensabile per godere, al grado massimo, del genio pucciniano. Questo è decisivo soprattutto nel caso di Madama Butterfly: un aspetto noto a chi abbia avuto un assaggio, ad esempio, con l'edizione Naxos ma ancor più ieri sera grazie alla «prova del fuoco», cioè quella del palcoscenico, per usare le parole di Puccini a Toscanini. E la prima versione, insomma, resta preferibilmente adatta ad essere applaudita come rarità discografica o chicca festivaliera.
Limitandoci all'essenziale, i luoghi in avvicinamento verso il capolavoro sono il finale della tragedia, ancora a basso tasso emozionale (grave difetto per Puccini) e l'episodio verboso e poco coerente sul piano psicologico che corrisponde alla katastrophé, qui giocata attorno al ruolo di Kate. Ma già nell'atto primo, causa l'eccesso di nipponerie, debole è il focus proiettato sulla protagonista e specialmente quello tragico espresso anche tramite il tema della morte (Ume no haru) che, dopo l'arioso «Nessuno si confessa mai nato in povertà», ritarda fra tanti salamelecchi quasi un quarto d'ora prima di apparire nuovamente («È un presente del vicario a suo padre») così da venire molto depotenziato, per non dire neutralizzato, nella memoria uditiva. Del resto, i siparietti del matrimonio messi in scena a distanza di un secolo restituiscono soprattutto l'odore stantìo da fiera espositiva (ah! les negres, ah! les japonais!) pure annacquando - io direi compromettendo - la dimensione etica di una vicenda ambientata in epoca coloniale. La couleur locale è davvero tutta là dove deve stare per poi rimanere, e cioè nella musica che si fa dramma, non già in pagine di mezzo carattere che riescono a farsi dimenticare anche dopo diversi ascolti. Questo è, insomma, un ritorno alle origini del testo che mi pare suggerisca una visione sostanzialmente vetrinistica del teatro, opposta a quella che fondandosi sul passato sa porsi in relazione dialettica col presente.
Troppo da perdere per non guadagnar poi molto, dunque, anche perché - e qui veniamo alla seconda questione - il titolo domanda una protagonista alla quale è giusto chiedere tanto e che, in occasione di una prima importante, si vorrebbe avesse coltivato nel tempo i tratti di un personaggio sfaccettato e seducente come lo sono pochi altri. Qui siamo, invece, ad un debutto che lascia traccia debole nella storia delle Butterfly scaligere, avendo il pubblico ricevuto da José Maria Siri non più di un abbozzo interpretativo sul quale calibrare il giudizio. La dote è quella del soprano che possiede una certa abilità nel manovrare un mezzo lirico ma dal peso tragico tutto da immaginare, complice una prima ottava poco a fuoco: una voce la cui grana si avvantaggia dell'ascolto radiofonico e televisivo rispetto a quello dal vivo. È Butterfly perlopiù imprigionata in una mimica resa per eccesso stucchevole e che non l'agevola certo nell'espressione; qualche durezza in zona acuta, ma è poca cosa a fronte di un'esecuzione che rimane generica nell'accento e non certo variata nel fraseggio. Andando verso il finale, per accensione drammatica è surclassata da Kate con la sua frase «È triste cosa, triste cosa», la migliore fra comprimari non memorabili. Ma, del resto, quale soprano che con una certa assiduità frequenti il ruolo della geisha vorrebbe rileggere la propria Butterfly temperandola in questa prima versione? Anche nell'ottica di estinguere il debito che l'istituzione culturale Teatro alla Scala ha verso tanti titoli (pure di autori contemporanei a Puccini), resta difficile comprendere perché non si sia puntato in apertura su uno che coinvolgesse appieno le risorse più solide del teatro, a cominciare dal coro e dal corpo di ballo; uno di quelli insomma che (non essendo proposti con una media di due recite all'anno in poco più di un secolo) avrebbero ricevuto le premure del 7 dicembre.
Il tenore Hymel, anche se avaro di colori e con qualche nasalità attorno al passaggio, ha retto bene i tempi rilassati che il direttore ha staccato sin dal principio, restituendo in maniera credibile la baldanza del personaggio. Sulla scelte agogiche, torna comodo qui riferirsi all'interpretazione di Pappano che, invece, li stringe molto a principio per distenderli poi alla salita della collina; effetto notevole che ha il risultato di concentrare là, con efficacia, l'attenzione dello spettatore che è ovunque stimolato da un progredire drammatico fatto di accelerazioni e soste, scoppi e
fasi di stasi nervosa, quelli che Chailly ci ha regalato mesi fa con La fanciulla del West.
Anni luce dalle pratiche dei routiner che in altre sedi hanno fatto o fanno macello della musica pucciniana, Riccardo Chailly è intento a lasciar assaporare le sonorità soffuse dell'orchestra ed estremamente ligio rispetto agli equilibri di volume col palcoscenico, anche a distanza di vent'anni dalla sua Butterfly scaligera: là agiva sulla solidissima regia di Asari, includendo - se la memoria non mi inganna - passi della versione 1904 con estrema parsimonia («Muso primo, secondo e muso terzo»). Ma qui, forse più di allora, rimane un'impressione di incompletezza mancando quella corrispondenza d'intenzioni che è indispensabile alle componenti dello spettacolo per avvantaggiarsi le une con le altre. L'impressione è quella di una certa quadratura nella quale vengono iscritte anche le frasi corte e gli incisi; è di studiata eleganza ma non avvantaggia in fronte drammatico e quanto a suggestioni è troppo sorvegliata nei passi sinfonici. Una parte di responsabilità spetta a scelte agogiche davvero coraggiose ma anche uniformi sulla lunga distanza, che poco rimandano la ricchezza della dimensione dialogica di Butterfly e tramite essa l'argento vivo di una tragedia che si nutre sì di nitore e levità ma in pari misura di palpiti e contrasti, caratteristici del dinamismo colloquiale da cui è attraversata la drammaturgia dell'opera. Tempi che in più punti paiono gareggiare per distensione con quelli di alcune celeberrime incisioni in studio, ma che nel terzetto Sharpless-Suzuki-Pinkerton assumono qui un tratto inopportunamente professorale.
Dal punto di vista figurativo lo spettacolo è godibile alla vista, ma specie nell'uso delle proiezioni manifesta tale diversità pittorica di stili, tecniche e gamma cromatica da non riuscire a sopprimere l'impressione che si tratti di patchwork d'immagini reperibili digitando Japanese painting, tanto manca una distintinzione che renda il lavoro identitario, circoscrivibile. Arduo davvero è il competere con le Butterfly di un secolo di Scala: le finezze di Foujita e dei collaboratori di Asari, il rigorismo a valenza psicologica di Lavezzi/Bignes, tanto per finire.
La gestualità dei mimi invade anche l'altezza del palcoscenico, trascurando la dimensione reale dello spazio che già da questa prima versione dell'opera possiede un'importanza capitale; ma se tale noncuranza trova giustificazione nei momenti di contrappunto figurativo all'azione, risulta invece grave danno quando si tratta d'inscenare la veglia notturna. L'assenza di contenuti pregnanti si maschera qua e là con reminescenze ponnelliane e finale "alla Asari" che è però è ben altro, specie in fatto di resa simbolica. Tra i suggerimenti inediti, si conta uno Yamadori spintonato in scena come un tontolone e là dal sensale costretto a forza all'inchino; evidentemente il fatto che possieda ville, servi, oro e un palazzo principesco non imbarazza chi gli è socialmente inferiore. O che sia un impostore spacciato per il nobile pretendente dallo stesso Goro? Più in generale l'allestimento, con i suoi frequenti allentamenti illustrativi, non contribuisce a creare la sensazione che sulla scena si consumi un dramma, ma che si dia spazio invece ad una ritualità artefatta.
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