«Spiana la fronte
aggrattata» («sleek o'er your rugged looks») non è il genere di battute che si lascia possedere dalla bocca di attori immersi in un contesto che - anche nella rinuncia a dar
sostanza al fantastico - si affida all'iperealismo del profilmico (qui The Eagle ben più che Valhalla Rising); un medioevo scozzese e d'ambientazione nel quale agiscono corpi attoriali inquadrati perlopiù in primo e in piano americano, che dicono i sublimi versi al passo con le
musiche di una colonna sonora tanto invadente quanto noiosa. Sono immagini e parole che faticano molto a creare sinergia e che perlopiù, anziché sommarsi, si elidono reciprocamente.
Sarebbe ovvio richiamare l'attenzione all'invenzione del vero (migliore del vero stesso), di verdiana memoria; e foss'anche alla Poetica di Aristotele. E si vorrebbe scrivere
di più sul lavoro di un regista che, alle primissime armi, se l'è sentita di misurarsi coi giganti. Ma, terminata la visione del Macbeth di Kurzel, ben più che delle timide incursioni interpretative sul testo, resta il
ricordo di quello che, in realtà, esula dai cinque atti della tragedia shakespeariana. Ed è un fatto piuttosto sorpendente, tenuto conto di quanta attenzione sia qui riservata alla supposta fedeltà all'autore ed "al contesto originale" in un film che appare incorniciato tra un principio ed una fine inediti: la pira funebre del figlio di Lady e Macbeth e, poi, la corsa di Fleance che è promessa dell'uccisione del fragile Malcolm. Una cornice narrativa che è, insomma, adatta ad un plot semplice, lontano da
letture stratificate del capolavoro; una vicenda che Kurzel sente intimamente generata da traumi personali (morte violenta o ingiusta) e che vede poi declinarsi attraverso vendette
che in nuovo sangue si risolvono per poi rinnovarsi: che l'origine sia il decesso di un figlio o dei molti combattenti coi quali ha diviso il campo Macbeth nella propria vita di guerriero (lui che i suoi pensieri confessa proprio al cadavere di un giovane ucciso in battaglia, in una delle pochissime sequenze che si riescono a trattenere nella memoria). Ma, per un film così fatto, apparirebbe davvero non necessario scomodare nientemeno che la parola di Shakespeare, avendo fede che attori già così caratterizzati agli occhi del pubblico risolvano gli squilibri. Questa volta, invece, Fassbender e Cotillard appaiono figure di personaggi, non attraversati nella carne dalle proprie emozioni; meglio, insomma, sarebbe stato vederli recitare una parte piuttosto
che imporgli di declamare proprio i venerati versi.
A quando un Macbeth 'tragedia dell'immagine', tout court, al cinema? E dire che oggi tecniche ed estetica della settima arte inviterebbero a percorrere proprio questa strada. Nell'attesa, tra i classici intorno a Macbeth, meglio consigliare ai nuovi spettatori le infedeltà di Tarr e Kurosawa.
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