GURNEMANZ
Du
siehst, mein Sohn,
zum
Raum wird hier die Zeit.
Tu
vedi, figlio mio,
spazio
qui diventa il tempo.
(Richard Wagner, Parsifal, Atto I)
Che il lavoro sia ambientato
in un futuro non troppo lontano è fuori di dubbio; ed è altrettanto
evidente che la storia, profondamente solcata da un pessimismo
radicale (tra le citazioni, Cuore di tenebra), sia in qualche
modo già trapassata, additando una salvezza per pochi, in un
improbabile altrove; certo, nel tentativo di scuotere le coscienze
degli spettatori intorno alle drammatiche trasformazioni climatiche
alle quali ci prepariamo. A rischiarare la vicenda, di tanto in
tanto, gli interventi di due simpatici robot, tributo a un certo
filone del genere fantascientifico, nel tentativo di equilibrare
temi, tempi e registri stilistici di una sceneggiatura
straordinariamente complessa; produzione imponente, dunque, ma dalla
fortissima identità.
Scolpire
lo spaziotempo, si potrebbe affermare parafrasando il titolo del
meraviglioso libro di Tarkovskij: è un invito alla quinta
dimensione, all'amore, anche quello per il cinema, unica realtà che
per ora sappiamo in grado di assolvere al compito di porre in
relazione simbiotica le due dimensioni; le stesse nelle
quale congeliamo in pochi istanti le emozioni irripetibili della nostra vita - padre e figlia
in alcune tra le sequenze più intense del film, anzi direi sezione
aurea dell'intero lavoro - restando aggrappati ad affetti,
situazioni ed errori destinati, però (anche sullo schermo), a perdurare
per sempre; quando il per sempre è da intendersi come il limite
delle nostre esistenze.
I
riferimenti cinematografici - e, implicitamente, letterari - di
Interstellar sono altissimi: si va da 2001: Odissea nello
spazio (tra l'altro, il precipitare cosmico
del protagonista) a Solaris (il rapporto tra Kris e Hari, mutatis mutandis, è centrale quanto quello tra Cooper e Murphy),
fino a Sul globo d'argento (l'arrivo dall'acqua sul
pianeta di Mann). E, più recentemente, Contact, Sunshine, Prometheus, sino al poco
riuscito Cloud Atlas.
Come sono simili alla Terra i nuovi pianeti! Quella di milioni di anni fa, sconvolta da maremoti e glaciazioni; il pensiero va nuovamente ad una fantascienza che ha cessato d'immaginare l'altrove ed il “marziano” per vedersi ricondotta, foss'anche nell'iperspazio, all'inquietante realtà del nostro prossimo futuro.
Come sono simili alla Terra i nuovi pianeti! Quella di milioni di anni fa, sconvolta da maremoti e glaciazioni; il pensiero va nuovamente ad una fantascienza che ha cessato d'immaginare l'altrove ed il “marziano” per vedersi ricondotta, foss'anche nell'iperspazio, all'inquietante realtà del nostro prossimo futuro.
Già il remake di Solaris
(Soderbergh, 2002) citava una poesia di Dylan Thomas: And death
shall have no dominion. Qui, ad infuriarsi contro il morire della
luce, è ancora una volta il poeta di Do not go gentle into that
good night. Nella fantascienza
di Nolan non c'è spazio né per fatalismi né per tentazioni aliene
("Loro? Loro chi? Noi!”) e ci riconduce così verso un
umanesimo sano e responsabile, riscaldato tanto dalla metafisica dei
sentimenti quanto dalla luce della ragione applicata, anche se
tardivamente, alla salvezza.
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