martedì 4 novembre 2014
Il regno d'inverno - Winter Sleep
Il regno d'inverno (Kış Uykusu, distribuito anche col titolo inglese Winter Sleep) mi pare, sino ad ora, il lavoro più compiutamente riuscito di Ceylan; un film importante, nell'accezione con la quale s'intende necessaria, indispensabile la visione e poi lo studio. Accanto ai rimandi shakespeariani e volterriani, è ancora una volta Čechov la principale fonte d'ispirazione del regista. Opera che vibra di tante risonanze esterne, ed è quindi anche politica, nel senso più intimo del termine, in accordo con la dimensione cameristica nella quale agiscono i personaggi: essenza politica che scaturisce da identità che configgono tra loro perché ferite nella carne viva delle proprie coscienze e delle proprie umanissime miserie.
Quello che si legge, neppure troppo in trasparenza (emblematico, a questo proposito, il rapporto tra il possidente Aydin e la famiglia dell'Imām del paese), è un quadro sociale d'inquietante aderenza, nel quale, cecovianamente, le vicende di singoli uomini acquistano una risonanza polifonica e, insieme, l'ampiezza del destino di un'epoca, la nostra. Ceylan è diventato un sensibile osservatore, poeta dell'uomo medio, delle sue speranze, dei suoi "miraggi"; quello temperato in questo film è un alto lirismo che è, insieme, di spietata desolazione. Ma l'autore, dopo aver messo anche in ridicolo la vanità e la stupidità degli uomini con accentuazioni persino farsesche (la maschera dell'attore, luogo shakespeariano per antonomasia) e frammiste a patetica tristezza, pare essersi ricordato che, fra gli appunti di Čechov, si legge: «L'uomo diventerà migliore quando gli farete vedere com'è». Come Ivanov, infatti, Aydin (Haluk Bilginer) è un "uomo superfluo" alle prese con il vuoto che lo circonda; le sue aspirazioni intellettuali, unite al senso d'impotenza che cerca di contrastare - da principio negandone le intime ragioni (la giovane moglie non lo ama più) - fanno di lui un eroe negativo, e l'inverno del suo scontento sembra negargli la speranza. Come fa la natura, romanticamente in accordo coi personaggi e ben altrimenti provocata che non in Iklimler (2006).
Il bellissimo, lungo dialogo tra fratello e sorella è, ancora una volta, tributo al drammaturgo russo (fonte è la novella Brava gente): le amare e non confessate contrapposizioni; le ferite inferte da chi pure non nutre, o non dovrebbe nutrire intenzioni ostili; le piccole cose che corrodono la vita; i personaggi delusi da un'esistenza nella quale ognuno ha mancato i propri obiettivi e trascina stancamente i giorni nel grigiore e nella noia. E la fotografia, sempre affidata a Gökhan Tiryaki, amplifica a dismisura la suggestione lirica che avvolge la tristezza dei personaggi, che siano illuminati dai riflessi di un camino o che incedano faticosamente tra le nevi della Cappadocia. Binari morti di vite senza svolte e senza riscatti, imprigionate in azioni imperfettive: qui la città del Sole non è Mosca, come nelle Tre sorelle, ma Istanbul, sognata da un lontano angolo di provincia. Meglio continuare a parlarne piuttosto che ritornarvi; meglio una grottesca finzione, quella di Aydin. La poetica di Ceylan - ed è questo un tratto nuovo - appare qui non poco refrattaria a lasciarsi incasellare nel genere drammatico; la forte eco rohmeriana rimanda, piuttosto, ad una compresenza tra cose profonde e in superficie, grandi e futili, tragiche e risibili. La vita, insomma.
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