Ieri sera ho visto Le Comte Ory alla Scala. Poche parole sulla parte musicale che, perdurando l'indisposizione di Flòrez, ne merita pochissime. Elemento di forza per tirare avanti la serata è la direzione di Renzetti; nulla di memorabile, ma adeguata tanto sul piano dell'agogica quanto nel rapporto col palcoscenico. Certo è mancata soprattutto quella souplesse che si richiede nei momenti languidi e sospirosi; quelli durante i quali è l'orchestra a doversi flettere per suggerire colori, atmosfere e nuances anche umbratili; ben più che quelli scintillanti, erano questi i luoghi prediletti da Bruno Campanella. Nella parte di Ory figura Colin Lee che, ad onta di sillabati decisamente fuori fuoco, risulta appena sufficiente per un teatro che si trovi nelle condizioni di dover andare in scena comunque, e con un titolo costruito intorno all'arte di un protagonista assoluto.
Adatte forse, in altri tempi, ad una seconda distribuzione sono le voci di Lo Monaco (Isolier), Degout (Raimbaud) e Tagliavini (Le gouverneur); il basso ha superato piuttosto bene il cantabile per poi manifestare i propri limiti nella cabaletta conclusa con una nota spavaldamente tenuta, ma brutta davvero. Indegno, invece, di calcare le tavole del palcoscenico milanese è il soprano Kurzak; una scelta semplicemente incomprensibile e una prestazione che per chi ami il belcanto (ma anche solo il buon canto) è censurabile sotto ogni profilo.
Il regista Pelly ha avuto successo alla Scala con un Elisir d'amore capace di mettere in valore il realismo campestre di un testo la cui fonte originale figura tra i lavori dello stesso prolifico autore dell'Ory: Eugène Scribe. Degni di nota, sui palcoscenici d'Oltralpe, anche gli allestimenti delle opéra-bouffe di Offenbach firmati dal regista francese. Per questa produzione, invece, si è comodamente rifugiato nella koinè teatrale in voga tra il cul(tur)ame. Essa prevede: "attualizzazione" dell'apparato scenico (scabro), dei costumi e luci bianche e/o al neon. Nessuna ricerca figurativa, dunque (ma sarebbe così entusiasmante il medioevo boccaccesco!) e nessuna idea capace di esaltare i caratteri peculiari di questo melodramma giocoso nel quale la comicità nasce non dalla natura dei personaggi ma da alcune situazioni molto ben delimitate dal libretto. Con noioso moralismo gauchista, la rivelazione che Pelly tiene molto a sottolineare è la seguente: anche oggi, le brave signore col girocollo di perle e coi bambini sul passeggino (ah, la famiglia tradizionale!) tradiscono i mariti che vanno a far la guerra. Una scoperta sorprendente, si dirà; degna, secondo Pelly, di uniformare ad un solo (quello della farsa) i molti registri di cui si nutre la ricca drammaturgia musicale del capolavoro rossiniano. Poco importa: anche quando proprio non si riesce nell'intento, bisogna cercare di far sorridere a tutti i costi, per di più con mossette e ammiccamenti da Bagaglino. E l'impressione è fatalmente quella di una barzelletta raccontata male e della durata di due ore e mezza.
Il meccanismo musicale e teatrale inventato da Rossini è, invece, un miracolo di perfezione; una lezione imprescindibile per i futuri sviluppi tanto della commedia in musica quanto dell'opera buffa tout court (Don Pasquale). Quattro sezioni:
Atto I: un edificio di ragguardevoli dimensioni eretto con toni tra il leggero ed il sentimentale. Il culmine è raggiunto con un'agnizione (sul modello di tanti titoli, Barbiere in testa);
Introduzione Atto II (Comtesse et Ragonde) meravigliosa sosta lirica turbata dall'inquietudine dell'attesa;
Climax comico, inclusa la ballata di Raimbaud: non è un caso che le risate ci siano solo lì. Non hanno bisogno di essere provocate in modo particolare, dal momento che guardare sulla scena una finta suora smaniosa e le sue consorelle che banchettano è comico di per se stesso (a questo ha già pensato Rossini);
Decantazione lirica nel sublime terzetto, con finale marziale.
È il Rossini delle grandi costruzioni formali in terra francese, lontano mille miglia dalle farse al teatro veneziano di San Moisè. Mai prima d'ora, proprio nel Comte Ory, è l'atmosfera morale impressa dalla musica a possedere i personaggi lungo una trama narrativa di equilibrata e squisita convenzionalità; già per lo smaliziato pubblico francese; e figurarsi per noi spettatori del XXI secolo! Di grande stimolo alle riflessioni su questo capolavoro, pensato anche per le prodezze di Adolphe Nourrit, è il Frederick Lemaître dell'Auberge: diverse sono le affinità, nella Parigi degli anni '20 del XIX secolo, tra Ory/Nourrit e Robert Macaire trasformato durante le repliche, con naturalezza, nel bandito-gentiluomo in chiave ironica. Ma rimando queste osservazioni ad altro luogo. Mi limito qui a rilevare quanto lo spettacolino di Pelly sia degno, appunto, della provincia francese nella quale nessuno sa che il Rossini di Le Comte Ory non è quello dell'Equivoco stravagante («Li ricevo seduta o sollevata?» - «Pur che tu li riceva tutti e due...»). Le ragioni di un tale acquisto da parte della Scala restano un mistero. Mistero non è invece l'arte degli interpreti proposti negli ascolti in calce a questo scritto.
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