venerdì 12 luglio 2013

"Un ballo in maschera" alla Scala (09/07/2013)


Solo un’annotazione sulle risorse figurative del regista. Nella scena prima dell’atto primo (allestimento firmato da Margherita Wallmann e Nicola Benois nel 1957) campeggiava un grande arazzo per evocare – nella Boston del XVII secolo – l’epoca dei conquistadores. Anche il costume e l’abitazione del creolo Renato (atto terzo) erano d’ispirazione indigena americana. In questo modo, sin dal principio, la vicenda privata si saldava con i moventi politici: riscatto di generazioni conquistate, congiura di Samuel, Tom e, poi, di Renato. La ricerca iconografica e la conoscenza dei molteplici spunti provocati dal testo, dunque, erano alla base del lavoro d’allestimento. Pessimismo radicale, inconsistenza del potere (di cui i protagonisti restano vittime) ed umorismo “ad uso Shakespeare” – per mettere in rilievo il tragico – sono nodi fondamentali nella poetica e nel pensiero di Verdi; un fil rouge che da “I due Foscari”, “Attila”, “Macbeth”, porta a “Rigoletto” e “Simon Boccanegra”. Mi pare che il regista Michieletto se ne sia accorto, provando a tradurre questi temi sulla scena (le colorate campagne elettorali americane). Per lo spettacolo, come avviene per tutti i registi della sua generazione, ha trovato ispirazione nell’iconografia che è loro più prossima: quella della fiction televisiva. Nei casi più avanzati, quella del cinema: qui le suggestioni provengono soprattutto da “Le idi di marzo” e per “Oberto”, con la regia di Martone, da “Scarface”. Errore capitale, a mio avviso, è soprattutto la sovrabbondanza, laddove essa non riesce a tradursi in gesti teatrali utili e convincenti: in primis, la caratterizzazione di Amelia nell’atto primo, i paraplegici e le puttane, con il loro ridicolo involontario. In quest’opera, l’equilibrio tra commedia e dramma è delicatissimo, pronto a spezzarsi in un istante; e questo è avvenuto quasi da subito. Ma credo che il regista abbia saputo gestire bene e con coerenza il disvelamento del finale (fantasma a parte). Ritenere che per essere più “vivida” l’opera abbia bisogno di essere “attualizzata” (parole di Michieletto) è un’idea miope e pigra che penalizza soprattutto chi, come lui, qualcosa da dire ce l’avrebbe. Cicisbei, parvenu, regine del culame che dispensano rilievi cretini su modernità del costume nell’arte e nella pittura; erogatori incauti dell’aggettivo “geniale”; direttori artistici ignoranti; membri della cosiddetta critica musicale italiana. Anche a loro credo fossero implicitamente rivolte le sonore contestazioni piovute su regista e collaboratori. Titoli, costumi, modernità, tradizione, ambientazione sono categorie estetiche che – di per se stesse – non sono sufficienti a spiegare quello che accade oggi sui palcoscenici d’opera. In mancanza di cultura operistica, che è anche storica ed iconografica, la nuova generazione d’interpreti semplicemente non sa, non conosce, ha pochi elementi (sempre gli stessi) ai quali attingere. Peccato.

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