L’ho tenuto a distanza per un po’ e recuperato soltanto ieri sera; tanto bruciava l’ultimo strampalato adattamento cinematografico di Macbeth (Kurzel, 2015). Ma con Coen non si poteva che riparare.
Tutto mi ha convinto in questo lavoro: la proficua consapevolezza d’inserirsi nel solco di una tradizione figurativa che per la tragedia scozzese vanta sullo schermo gioielli di una collana resa preziosissima da tre gemme (Welles, Kurosawa, Tarr); il protagonista che è il Macbeth più arrendevolmente stretto nelle spire da se stesso avvolte ch’io abbia mai incontrato, certamente al cinema (avremmo supposto che Washington, corpo attoriale tutto benevolezza e idealità, fosse tagliato per la parte?); il ritmo ineccepibile impresso da attori e regista al periodare versi e immagini; e al tacere tanto e bene le musiche, composte col contagocce dal fedelissimo Burwell per esaltare sonorità materiche indispensabili agli squarci orrorifici e indugi archi/fiati per far cantare poche, asciutte sospensioni.
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