È emersa dalla scatola dei ricordi cercando tutt’altro. Era questo il divertissement inventato da Pippa Bacca e distribuito a chi stava in coda per la prima del Sant’Ambrogio di ventiquattro anni fa. È stata quella per me l’ultima inaugurazione vissuta da spettatore; poi cominciò il lavoro. Scopro che hanno caricato su YouTube l’audio Rai di quella serata e l’ho ascoltato per la prima volta facendo il confronto coi ricordi dal vivo.
Come sempre accade, la trasmissione (audio o video che sia) livella i volumi e chi non c’era deve fare un piccolo sforzo d’immaginazione. La produzione fu complessivamente felice e salutata con molto entusiasmo; ne vidi altre due recite. Una di quelle fu anche trasmessa in diretta tv su Rai1, con esito devastante per i dati dell’Auditel (appena 500.000 telespettatori) e annesse polemiche sulla cancellazione del TG1 delle 20. Ma fu quello, chissà, un evento apripista per chi sognava di rivedere le opere in tv a orari più umani di quelli ai quali venivano convocati nella notte i loggionisti per rispondere agli appelli.
Fu un appuntamento televisivo favorito da un’epoca in cui il direttore musicale della Scala era ormai compiutamente avviato a investirsi della carica di ministro plenipotenziario della cultura musicale. Poi come andò a finire lo sappiamo tutti; come sappiamo, del resto, che quello dei ministri è lavoro a tempo determinato.
La quantità di suono che usciva dalla buca dell’orchestra era quel 7 dicembre assai maggiore di quanto lasci intuire la registrazione, ma minore rispetto a quella nuovamente suscitata durante le repliche dalla bacchetta di Muti, forte di un successo personale che gli fece abbandonare l’approccio prudenziale adottato alla première. Era d’impatto il Tutti dello “Schiudi inferno”; insomma, tremavano le sedie. Mi sembra di ricordare che, anni prima, per la registrazione a Londra nell’81 Muti avesse preteso di triplicare i cantori del coro.
Il suo resta un “Macbeth” di eloquenza oratoriale, specie rispetto a quelli in cui si apprezza una bruciante teatralità. Complice alla Scala la regia di Vick (molto suggestiva la simbologia adottata per le apparizioni dell’atto terzo), quel “Macbeth” sembrava mettere in valore la cifra mitica e anzi atemporale della tragedia: quella della morte della metafisica, che è nodo essenziale del capolavoro shakespeariano.
Non mancava però alla lettura di Muti una narratività piuttosto spiccata (massime se paragonata a quella dell’incisione in studio) e certi passi di compiaciuta magniloquenza, specialmente nel finale ultimo, dotavano l’insieme di un effetto appropriato: erano vita, e cioè «vento e suono che nulla dinota».
L’eredità di Abbado e Strehler stava e sta altrove, in un orizzonte diversissimo e lontano. Ma qui entreremmo in un territorio sconfinato: quello delle complessità proprie del capolavoro verdiano, alla cui devozione ho aggiunto un contributo di tesi all’università.
Naturalmente non prendo qui neppure in considerazione l’ultimo “Macbeth” della Scala (Gergiev/Corsetti): una produzione indegna dell’autore, del titolo e del luogo in cui si dava. Fu sommersa dai fischi e oggetto di reprimende perfino dalle penne più codine della critica italiana avvoltolata nel proprio associazionismo.
Torno al ‘97. Molto guardinga alla prima, la Guleghina fu più comoda alle repliche. Certo, come all’inaugurazione, non mancarono le incrinature del mezzo (già nella cavatina) che la portarono poi negli anni ad un declino tutto sommato precoce.
Alagna (Macduff) pretese e ottenne un “aiuto sonoro” e l’effetto un poco si avverte anche alla radio: è quello di un riverbero nei passaggi fra note brevi e lunghe.
Bruson, all’epoca ultrasessantenne, è sempre stato il Macbeth più vicino al mio modo d’intendere il personaggio. Pur amando immensamente il Macbeth di Cappuccilli, infatti, individuo specialmente in Bruson l’uomo che ha perduto la grazia. Di più: l’uomo divenuto incapace di leggere i segni del reale, come accade a Otello e a Falstaff (e che Falstaff è quello di Bruson!). Un tristo votato al male; così Verdi definiva il Pancione della commedia.
Fraseggiatore sensibilissimo, Bruson ha incarnato - con piena maturità e saldezza di mezzi nelle recite di Berlino dirette da Sinopoli - il Macbeth più lontano da accenti tribunizi e postura gigionesca. È infatti un re d’introversione dolente. Un re che non dorme mai perché i suoi pensieri eccedono le incombenze abbandonandolo in un abisso che scavalca i secoli. È un uomo trapassato a se stesso che canta “Pietà, rispetto, amore” come chi pianga ben più di una perdita personale, foss’anche la propria: è la sua una sconfitta immateriale, assoluta.
Picologicamente scandagliato in ogni piega, il Macbeth di Bruson è tale servendosi di mezzi squisitamente musicali; e dire che l’attore era ugualmente superlativo. Sono i mezzi di chi, sì, possiede timbro bello per natura ma ha pure frequentato e con proprietà il belcanto, con emissione piena e omogenea. Sa - o sembra sapere, il che è la stessa cosa - che nella tragedia dell’uomo Macbeth sono in gioco tali immensità da non permettere facili escamotage espressivi e ingrossamenti boulevardeschi.
Lo ripenso in altri ruoli verdiani e rifletto su questo. Come la difformità fisica di Rigoletto non inibisce il patetico e il terribile, così in “Falstaff” la comicità del Cavaliere lo fa delicato amalgama di presunzione, spensieratezza e umor nero. E così Macbeth, uomo nato per essere gabbato, è però aristocratico e misurato proprio nel lucido squilibrio che gli fa sperimentare il reale quale conflitto irrisolvibile, sottratto alla possibilità di render conto della legge morale.
Al termine verrebbe quasi da abbracciarlo questo re indomito e sanguinario perché, lo abbiamo compreso, la sua tragedia è anche la nostra.