Ventun'anni (1998) non sono i trenta, o giù di lì, che ci separano a
Milano dalle ultime apparizioni scaligere della Horne, di Pavarotti o
dai Vespri siciliani. Ma sono un lasso di tempo adeguato per fare dei
raffronti, e fa piacere sapere che Chovanščina (nel secondo dopoguerra
alla Scala ha tradizione esecutiva di una certa frequenza) abbia
lasciato negli spettatori degli anni '90 un vivo ricordo. Almeno in
quelli fra loro che videro davvero lo spettacolo dal vivo, perché - come
si sa - caratteristica tutta peculiare al mondo dei fruitori d'opera è
quella di aggiungersi qualche anno di frequentazione per poter dire,
parafrasando il Manzoni, «io c'era».
Erano davvero belle serate, in
un inverno milanese freddo come ormai solo nei ricordi e, quando il
clarinetto attaccava la sua frase nel Preludio, sembrava già di essere
condotti per mano sulla Piazza Rossa (la scena si apre là) a provare
ancor più freddo.
La produzione fu "trainata" da un successo
vivissimo: quello del concerto tenuto in giorno prima da Orchestra e
Coro del Mariinskij-Kirov, sempre sotto la bacchetta di Gergiev
(programma: Nevskij e Quadri). Le notti bianche erano a Milano,
insomma; e in bianco erano quelle di chi faceva la fila al freddo per
prendersi il biglietto. Ne valse davvero la pena perché l'ascolto
sinfonico fu entusiasmante e gli applausi non finivano più. Nostalgia
adesso (molta!) del rapporto instauratosi all'epoca - a qualche anno di
distanza dal crollo dell'URSS - con istituzioni, cultura e storia russa
che facevano visita regolare all'Italia sul suo massimo palcoscenico;
quanto alla realtà presente delle relazioni fra Occidente e Russia fate
voi il confronto.
Tanto più che lo spettacolo era proprio quello
consumato da anni ed anni sulle tavole del Kirov: colori vivaci a metà
fra Repin e technicolor russo, fondali dipinti e scenotecnica d'antan.
Era come essere là senza muoversi da casa.
Gergiev guadagnava il
podio (vidi quattro recite) sempre in ritardo di 6-7 minuti. Per la
Scala un'enormità; le ragioni si bisbigliavano fra le maschere
dell'anticamera di palcoscenico.
Siccome Chovanščina, con
l'orchestrazione sontuosa e materica di Šostakovič, è sì opera di cori
ma altrettanto di cantanti con risorse cospicue e canto buono e
possibilmente anche bello, il successo era diviso fra compagini
scaligere (alcune signore, con ancora in testa le note del Concerto,
credettero che Coro e Orchestra fossero sempre quelle russe, tanto il
suono era stato plasmato in quel senso da Gergiev) ed interpreti come la
Diatkova, Galusin e Grigorian. All'ingresso in scena la voce di
Burchuladze testimoniava, a chi non lo sapesse, cosa s'intende per
“mezzi imponenti”.
L'istante dell'omicidio di Ivan Chovanskij
lasciava tutti letteralmente a bocca aperta, forse perché non c'erano i
sopratitoli a “distrarre” e in qualche misura a suggerirlo. Il tutto,
infatti, avveniva con rapido e inatteso effetto teatrale.
Non altrettanto successo arrise, sempre a Milano qualche anno dopo, al Boris Godunov.
[dopo la recita]
Con gli anni la direzione di
Gergiev mi sembra diventata più asciutta, meno evocativa nei colori ma
di teatralità meglio ricercata. Nel cast si distingue Stanislav Trofimov per un Dosifej di spiritualità umanamente rassegnata.
Davvero d'altro valore, guardandola ancora una volta, la regia viennese di Kirchner (1989) per la Chovanščina diretta da Abbado, col finale raggelante e oltremondano immerso nella luce bianca che spalanca un abisso.
Stravinsky lo scrisse in un anno magico: 1913. Anche sulla scena quel finale fu da antologia, sintesi di quando il pensiero incontra
l’immagine e il teatro; una
produzione che resta fondamentale per capire l'opera. Poco davvero a
che spartire con la regia di Martone laddove ha assemblato pigramente
situazioni a metà tra softcore e telegiornale che non scalderebbero
neppure i dentisti del mercoledì sera al cinema e che su un palcoscenico
restano (come già nella Cena delle beffe) inserti fra parentesi: un
vorrei ma non riesco privo di effetto teatrale.
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