Qui gli ascolti che, a mio avviso, raccontano meglio di altri l’arte di
Montserrat Caballé e che sono un poco trascurati in questa occasione
luttuosa. L’arte della Caballé, certo, e in primo luogo il suono della
sua voce. Perché quello era - il suono - e non genericamente “la voce”
ad arrivare all’orecchio durante l’ascolto dal vivo con morbidezza e
facilità straordinaria (ho fatto in tempo, anche se negli anni del
declino).
La voce è mezzo che si apparenta troppo immediatamente
alla fisicità (la Caballé era campionessa anche di questa). Poi,
magari, la voce si apparenta pure alla fibra e là si commette errore.
Bisogna, specialmente per un’artista come la Caballé, parlare allora in
primo luogo di suono e di come arrivava in teatro. Suono, infatti, è
parola che rimanda alla dimensione squisitamente musicale del mezzo.
Qualità sonora del soprano catalano che la associa, fra quelli della sua
generazione, a Pavarotti come si sente in quel postatissimo video dal
vivo della Bohème del ‘76 al Met. Video e audio amatoriale, certo. Ma
se è mortificante sul piano della profondità dell’ascolto (mono) - o
forse proprio in virtù di questo - offre testimonianza ai nuovi
spettatori di cosa siano i suoni che arrivano facili e rotondi.
Anche la Caballé, con Callas e Sutherland, si contava tra le ammiratrici
di Magda Olivero. Una volta il soprano catalano dichiarò: «È il mio
mito; quando decisi di cantare “Adriana Lecouvreur” mi sforzai di
accostarmi il più possibile al suo modello, ma sono rimasta solo una
brutta copia». Immagino che facesse seguire a questa frase una delle sue
contagiose risate.
Se dovessi scegliere una sola interpretazione della Caballé da portare sull’isola deserta ne avrei diverse a disposizione.
La sua Giovanna d’Arco, forse? Oppure Fiordiligi? Luisa Miller? Sono
certo che uno spazio in valigia lo pretenderei per Margherita
(Mefistofele). Almeno per la romanza dell’atto terzo si troverà posto
nella tasca laterale!
La Caballé è stata anche Elena, certo:
nobilissima eppure languorosa. Ma è stata ancor più memorabile nel ruolo
della protagonista. E se la Lecouvreur della Olivero servì da modello
alla Caballé, sarebbe assai difficile escludere - una volta fatto il
raffronto - che lo sia stata pure per l’opera di Boito.
La Caballé,
infatti, segue e approfondisce, fedele alle natura belcantistica, la
linea tracciata dalla Olivero: sfruttamento delle risorse più pure del
canto per far guadagnare alla pagina una drammaticità tanto raggelata
quanto dirompente.
La Olivero, dal vivo, canta la romanza col
potere evocativo di un fraseggio capace di farci sentire sulla pelle
pure la temperatura dell’«aura fredda». E poi il volo inquieto del
passero, smarrito nel bosco per mimare un tormento che è instabilità
nevrotica e che, nella scaltrita e sorvegliatissima linea di canto,
pretende col crescendo emotivo un’apice (anche focus del proscenio) che è
la prodigiosa messa di voce sul Si naturale nella cadenza del secondo
couplet.
Se nell’esecuzione dal vivo che si trova in rete (1987) la
Caballé concede davvero troppo all’effetto (io direi effettaccio) che
chiama l’applauso, in studio (1974) canta con patetismo trattenuto ed
orrorifico in proporzione diversa ma altrettanto efficace rispetto alla
Olivero. Trova la sua Margherita il filtro rassicurante della follia;
quello che chi subisce uno squilibrio mentale adotta per affrontare la
realtà. Ed ecco allora il rifugio nella mimesi di un volo musicale che
suona rischiarante, fluido, per culminare due volte in trillo
immacolato. Un canto che altrove, sempre con studiata accortezza, si
disincanta per brevi ed inquietanti momenti («anima mia»), ricorrendo
anche a colpi di glottide che restano in una linea sorvegliatissima
eppure estremamente mobile, equilibrio perfetto di pathos e melanconia.
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