Sala gremita ieri sera all’Anteo per la prima e, si spera, non ultima proiezione milanese di The Other Side of the Wind, estrema fatica di Orson Welles girata fra il '70 e il '76, finalmente completata da Bogdanovich/Murawski/Legrand e presentata a Venezia poche settimane fa dopo tanti anni di attesa. Distribuita dal “famigerato” Netflix che ne possiede i diritti, l'ultima notte di J. J. Hannaford è frutto di un lavoro colossale, mastodontico, e mi pare che il risultato sia il migliore che si potesse immaginare per la fedeltà alla disordinata coerenza del progetto wellesiano. Da sempre, per la versione di 45' montati dal regista, si chiamano in causa a ragione 8 e 1/2, Intervista, La Nuit américaine. In questo completamento postumo, però, palpita autentico il tormento creativo del grande regista americano che giganteggia fra i mondi del dentro e del fuori camera come fra le due facce del vento. E benissimo questo lavoro articola la tematica del rapporto ambiguo, anche sul piano dell'identità e dell'orientamento sessuale, fra maestro e attore protagonista.
Il resto, almeno in parte, è cosa nota. Il titanico John Huston presta i tratti al grande regista con apparizioni che ogni volta si mangiano lo schermo. Accanto a lui il sardonico Bogdanovich che c'era allora, c’è adesso e sempre ci sarà. Beato lui, testimone di tante avventure ben oltre l’habitus della critica cinematografica, quasi sempre superficiale, impicciona, e che proprio in questo film è presa letteralmente a ceffoni.
Da antologia tante sequenze, testimonianze di primissima mano di un mondo già lontano. Memorabili quelle verso il finale, con la promessa - scacciando il pubblico dal drive-in - di finire il film e di farne cioè uno vero, prima che voi riusciate a metter mano in tutto questo guazzabuglio.
Il congedo, affidato al fuori campo di Huston/Welles, è secco e straziante: una dichiarazione d’amore per chi sa guardare e riguardare intensamente alle cose per suggere la loro linfa vitale e restituirla agli altri. Fino all’ultimo giorno e poi morire.
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