martedì 7 giugno 2016

"L'Heure espagnole" e "L'Enfant et les sortilèges" alla Scala

Davvero poche considerazioni merita la produzione di L'Heure espagnole applaudita ieri sera alla Scala: non si saprebbe se stigmatizzare di più la volgarità oppure l'insipienza dell'insieme, caratteristiche da considerare alla pari qualora ammorbino un capolavoro musicale che è scrigno d'intelligenza e finezze. Impressionante anzitutto è il constatare quanto l'orchestra della Scala, sottratta alle premure di Chailly nella recente Fanciulla del West, suoni morchiosa, a tinta unita, senza alcuna trasparenza e precisione; colpa certamente di un direttore quale Minkowski che è apparso ovunque a disagio e che per nulla è stato capace di provocare gli umori, i profumi, la malinconia insieme ironica e piccante di una partitura tanto gravida. Piattezza e limitatezza sia dell'agogica che delle dinamiche, dunque, già nella Introduction ridotta ad un generico tappeto sonoro per nulla in grado di schizzare il tratto magico, incantato della bottega di Torquemada; una sorprendente monotonia che certo non può trovare giustificazione nell'ambientazione scenica (gli anni '70 di un interno spagnolo tutto sottosopra). Quanta sensibilità richiederebbero invece quelle impennate della frase, quel nervoso tendersi e infittirsi del dialogo strumentale, quel gusto per la geometrica concentrazione delle linee e delle forme! E la stessa premura dovrebbe essere riservata al graffio aspro convocato a spezzare la souplesse di brevi squarci lirici, quelli da accarezzare con aplomb e sensualità inconfondibilmente francesi.
Nell'orchestra guidata da Minkowski, invece, nessuno charme beffardo e disincantato distingue, ad esempio, le apparizioni della valse di Don Inigo. E una frase discendente come quella in glissando affidata alla tromba per suggerire la stazza del banchiere durante il colloquio con Concepción non è iscritta nel disegno ma convocata solo per far da contrappunto mimico all'azione scenica; anche questo dà la dimensione di una lettura di estrema superficialità. Ma gli esempi sarebbero molti, a cominciare da quel «Voilà ce que j'appelle une femme charmante»; una frase-cerniera così bella, nella quale fatuità e intenzione convivono sulle labbra del baritono, è buttata via come straccio vecchio da un interprete che falsetteggia a più non posso. 

 

Del resto, non sono stati convocati in questa Heure altro che emuli del canto naturalista per schizzare individualità tutte abbondantemente sopra le righe, riassumibili coi tratti caricaturali di vecchio lubrico e di tontolone. Una semplificazione, insomma, che riduce la raffinata ed insinuante commedia ad una farsaccia: è la stessa differenza che passa tra il riso sottile, arguto, piccante provocato da un gioco intellettuale che invita tutti alla partecipazione e la risatazza dopo un'esibizione pecoreccia. Quello che sorprende maggiormente è qui la mancanza di fede nei valori della musica, certo segno di un travisamento: il credere che si debba abdicare alle ragioni del suono e del canto per meglio immergersi in un realismo dal quale, per la verità, Ravel si tenne lontano almeno quanto fece dalle brume di Debussy componendo qui un recitativo esteso - erede diretto delle tendenze proprie dell’opera buffa del XVIII secolo e poi assimilate guardando a Musorgskij -, inframezzato da slanci che sono omaggio alle arie e ai pezzi di bravura classici; insomma, quel «mélange di conversazione familiare e di lirismo a bella posta» che non si può domandare ad un quintetto di artisti (i più assidui con Minkowski nel repertorio dell'opéra-bouffe) le cui sole virtù stanno in un gioco scenico disinvolto. Ho immaginato per un momento Harding sul podio e, pensando alla sua intelligenza e classe, ho provato una vertigine; risalendo indietro nel tempo, il dittico raveliano fu proposto alla Scala per le premure di Prêtre (1979).
Un filo, ma proprio un filo meglio, L'Enfant ma solo perché qui, ad un'orchestra ancora avara di colori ed incapace di muovere il caleidoscopio delle atmosfere, non si aggiungeva una messa in scena uniformemente parodistica. Certo, anche nel secondo pannello del dittico, certe facili mossette sono poco riuscite ad amalgamarsi col tentativo encomiabile di calare la fantasia lirica di Colette nella dimensione di sogno angoscioso la cui trama si svolge in un palcoscenico vuoto ed estraniante, animato dagli oggetti e dalle figure fuori dimensione (bella l'apparizione del fuoco). Anche qui, però, il canto latita a cominciare da una Maman imbarazzante per arrivare al tenore Fouchécourt (il Torquemada dell'Heure), in debito di fiati, con voce asfittica e senza ombra di registro acuto, risolto con cachinni e falsettini anche dove non prescritti; uniche eccezioni l'Enfant della Crebassa e Le Feu/ La Princesse / Le Rossignol della Khourdoïan; ma per eleganza, gusto, musicalità pagine incantate come quelle della principessa meriterebbero, a cominciare dall'orchestra e dal contrappunto del flauto, ben altre suggestioni e ben altro modo di porgere le frasi; colpa di un direttore che delude persino negli squarci che gli sarebbero più congeniali, come la parentesi barocca delle pastorelle e dei pastori tirata via senza sensibilità e guastata da un gioco scenico che si fa inutilmente fragoroso.

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